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Aosta vista dagli svizzeri

Mauro Caniggia Nicolotti • dic 23, 2020
Aosta vista dagli svizzeri

Il 14 luglio 1905 fu inaugurato il tratto della strada carrozzabile che collegava Aosta con il Gran San Bernardo. 
Il tracciato andava a connettersi con quello che dal colle scendeva a Martigny, percorso già aperto al traffico dagli svizzeri un anno prima. 
Per l’occasione i festeggiamenti valdostani furono tanti e le autorità elvetiche furono invitate ad Aosta. 

Grazie a quella ospitata in città, alcuni  giornali d'oltre confine ebbero modo di proporre ai loro lettori numerosi  paragoni tra Aosta e Sion (Vallese) e tra i rispettivi territori che fanno capo ai due agglomerati urbani.
Sebbene i due capoluoghi siano separati solo da un centinaio di chilometri, con la nascita del Regno d’Italia tale distanza sembrò moltiplicare; talmente tanto da far dimenticare a molte persone che tra i due territori - sempre in grande contatto tra loro nel corso dei secoli - l’unica cosa che li divideva era un contrafforte alpino e non la lingua, le tradizioni e la cultura. 

Fu così che qualche commentatore di allora, forse digiuno di storia, si meravigliò per le tante analogie esistenti tra la Valle d’Aosta e il Vallese; cadde nel medesimo "tranello" anche l’anonimo giornalista svizzero che in un articolo dipinse la realtà valdostana che vide.(1) 
Per la verità se la sua cronaca è pertinente, contemporaneamente presenta qualche stereotipo e pecca in alcuni punti; per esempio quello relativo al fatto che i valdostani sarebbero stati “mezzi francesi e mezzi italiani”. Probabilmente il giornalista fu ingannato sia dall’uso della lingua francese (idioma da secoli ufficiale in Valle), sia dall’italiano che, parlato da una piccola percentuale di abitanti (soprattutto giunti da fuori regione), aveva cominciato da tempo a insinuarsi nel tessuto valdostano. 
Dopotutto, anche i vallesani parlano francese e tedesco e per questo non possono essere catalogati come “mezzi francesi e mezzi tedeschi”, ma tant’è. 
Allora come oggi c’era qualcuno che non conosceva la parola “francofono” o “bilingue”... 
Tralasciando ulteriori polemiche, ecco la parte del racconto di allora che ci interessa: 

(...) "Con le sue antichità romane e i suoi 8.000 abitanti mezzi francesi e mezzi italiani, Aosta è una delle città più interessanti degli Stati Sardi(2) e la capitale del ducato che porta il suo nome. 
Quando si arriva ad Aosta da Saint-Christophe, si è colpiti dalla somiglianza che esiste tra questa città e la nostra bella Sion(3) osservata scendendo dalla strada di Savièse.(4) 
L’aspetto generale è il medesimo: stesse torri, stessi campanili e uno sfondo, che dà l’illusione di vedere quello di Les Mayens-de-Sion;(5) esiste anche qui su un’altura, ma un po’ meno a destra, una chiesa che ricorda quella di Salins.(6)
Con questi esempi si ferma la comparazione, perché, - senza parlare delle nostre deliziose colline di Tourbillon, Valère o Montorge(7) che nulla qua le può ricordare, - quando si percorrono le vie della città di Aosta non si trova quel clima intimo della capitale vallesana; quell’aria di fine bonomia e di vera gaiezza che caratterizza i nostri Sédunois
La gente di Aosta sembra chiusa, diffidente; mi sono persino detto, e mi è sembrato di vedere sui loro volti “à la Calabrais”, che sono un po’ sornioni. In ogni caso, sorprende vedere tanti mendicanti chiedervi l’elemosina mentre due passi più in là degli industriali che vi spelano come gli inglesi.(...)

Arrivato per la prima volta nell’antica città di Augusto, mi affretto a visitarne le meraviglie; ecco la casa natale di sant’Anselmo di Canterbury,(8) ecco, un po’ dappertutto il ricordo del grande benefattore di Aosta, l’arcidiacono Bernard de Menthon;(9) questi santi hanno contribuito alla grandezza della città pretoriana molto più che il prestigio di Augusto che le ha dato il nome. 
Tuttavia, quasi a unire in un unico ricordo queste tre glorie nazionali, ecco, poco distante dai resti dell’anfiteatro romano(10) e dall’Arco di Augusto, la massiccia Collegiata(11) con i suoi magnifici stalli, le sue interessanti galeries(12) e i suoi capitelli finemente cesellati.(13) Più oltre ammiro l’Hôtel de Ville; il Seminario; le superbe asile des Veillards,(14) ente di beneficenza sorto grazie all’iniziativa e all’inesauribile dedizione di Père Laurent, cappuccino; il Convento delle Suore di San Giuseppe con l’adiacente Orphélinat, la torre des Crevafaim (Bramafam) e quella dei Lebbrosi, immortalati dalla penna di Xavier de Maistre: la residenza o casa di Caccia del Re d’Italia;(15) infine la sede vescovile e la vecchia cattedrale ove siede, brillando di virtù, il venerabile vescovo Duc.(16)

Tuttavia, accanto alle testimonianze che il viaggiatore può ammirare, ci sono anche alcuni angoli di strade, certi viali, dove una società d’embellissement troverebbe un prezioso campo di attività; (...) nonostante le celebrazioni e le feste che continuano sotto gli auspici delle autorità della città e della provincia, avevo voglia di risalire fino al San Bernardo e rivedere il Vallese. 

Mentre salivo a piedi la bellissima valle che porta all’Ospizio,(17) mi sono accorto che molte valli laterali del nostro cantone hanno, con questa, una grande analogia. La Val d’Hérens,(18) per esempio, le assomiglia molto. Presenta più o meno la stessa disposizione dei villaggi e nella popolazione si trovano le stesse tradizioni e usanze. 
Ecco, ai piedi della valle, Saint-Christophe che ricorda molto bene Bramois;(19) in alto a destra, una dozzina di villaggi sparsi o frazioni: è la graziosa parrocchia di Roisan che potrebbe apparire come una parente stretta di ciò che noi chiamiamo Vex.(20)
Ma ad un certo punto, in una curva della strada, apparire i villaggi di Allein e Doues che evocano in modo del tutto naturale il ricordo di Hérémence(21) e di Mage,(22) ma le case sono meno affollate, i pendii meno ripidi, la terra meno morcelés
Etroubles, Saint-Oyen, Saint-Rémy potrebbero chiamarsi Euseigne,(23) Saint-Martin, Evolène.(24) 
Infine, questo delizioso Ollomont, un po’ a sinistra sul fianco della montagna, non perderebbe molto nell’essere scambiato con la motta del Rectorat de La Sage.(25) 

Le colture valdostane sono più o meno le stesse della Val d’Hérens, vite, patate, mais, segale, fagioli, prati, ma qui c’è in più una superba presenza di castagni e, va aggiunto che, essendo il terreno meno arido, la vegetazione è anche più lussureggiante. 
Come da noi, il mulo è molto utilizzato, ma viene impiegato principalmente per trainare la grosse carriole a due ruote in uso in queste contrade. 

Le persone sembrano laboriose, ma non si preoccupano del loro abbigliamento e della cura della pulizia. 
 Tutto sommato, e nonostante la nostra origine comune, c’è una differenza piuttosto grande tra il Valdostain(26) e il Vallesano e credo che ciò non sia solo per orgoglio nazionale che preferisco gli abitanti della valle del Rodano."

(1) Gazette du Valais, 24 luglio 1905. (2) Non più esistenti; i suoi territori furono inglobati poi nel Regno d’Italia proclamato nel 1861. (3) Sion è la capitale del Canton Vallese (Svizzera). (4) Savièse è un comune del Canton Vallese che si trova poco più a nord di Sion. (5) Luogo di montagna e di villeggiatura nelle vicinanze di Sion. (6) Piccolo villaggio nel Comune di Sion. Il riferimento è, forse, alla parrocchiale di Charvensod. (7) Diverse alture presso Sion coronate da altrettanti castelli. (8) In realtà si tratta di Sant’Anselmo di Aosta L’edificio si trova in via Sant’Anselmo. (9) San Bernardo di Mentone, come si credeva un tempo, in realtà è san Bernardo di Aosta (1020-1081). (10) Forse s’intende il teatro. Ancora oggi da molti viene chiamato erroneamente “anfiteatro”, monumento i cui resti si trovano invece poco più a nord. (11) ... di Sant’Orso. (12) Probabilmente si tratta del piccolo portico del Priorato. (13) Si tratta del chiostro romanico (metà del XII secolo). (14) Il riferimento era all’attuale centro residenziale per anziani “Refuge Pére Laurent” ancora oggi ben attivo. (15) Non è chiaro a cosa lo scrivente si riferisca; probabilmente al castello reale di Sarre distante - anche visivamente - dalla città. (16) Joseph-Auguste Duc, vescovo della Valle d’Aosta dal 1872 al 1907. (17) La valle del Gran San Bernardo. (18) Valle laterale di quella del Rodano che si apre a sud di Sion. (19) Villaggio del Comune di Sion. (20) Comune e capoluogo del distretto di Hérens. (21) Comune del distretto di Hérens. (22) Oggi Mase; villaggio del Comune di Mont-Noble, distretto di Hérens. (23) villaggio del Comune di Hérémence. (24) Comuni del distretto di Hérens. (25) La Sage: piccolo villaggio del Comune di Evolène posto a 1.667 metri d’altitudine. (26) La parola Valdostains era usata nei secoli precedenti; oggi è in uso il termine Valdôtains mutuato dal francoprovenzale Val d’Outa (Valle d’Aosta).
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 16 mag, 2024
Il bicchiere dell’ abbé Gor re t L’ abbé Gorret, noto a tutti per la sua vis polemica e per alcuni dei suoi vizi, come l’eccesso di vino, “mangiava poco”, come riportava Lino Vaccari, “in compenso beveva con larghezza omerica, senza preoccuparsi delle conseguenze o darsi per inteso dei giudizi che altri avrebbero potuto formulare sul conto suo, spesso dimenticando i consigli e gli ammonimenti che venivano dai suoi superiori”. Un giorno, mentre era stato trasferito in Francia, il vescovo di Grenoble gli fece notare il suo eccessivo consumo di alcol e gli ordinò di limitarsi a un solo bicchiere di vino durante i pasti. Lo stupore del prelato fu enorme quando, qualche tempo dopo, durante un pranzo con Gorret, quest’ultimo pose in tavola un bicchiere di dimensioni spropositate, grandissimo. (1) Ci volle poco perché le risate fragorose del vescovo non diluissimo il vino con le sue lacrime. Ma cosa si poteva davvero chiedere a lui, immerso nella sua modesta condizione e “esiliato” a Saint-Jacques di Ayas dopo anni di peregrinazioni? Nella sua umile dimora, della quale diceva j’ai peine à m’offrir l’hospitalité moi-même , (2) tranne il venerdì, i pasti consistevano spesso in una scodella di vino zuccherato e pane, seguita a volte da un pezzo di salame, talvolta piccante. (3) Nota a margine: il grande boccale rimane ancora a Valtournenche, la sua amata terra natale. (1) L. Vaccari, L’abate Amato Gorret , in Bollettino del Club Alpino Italiano , Vol. XXXIX, n. 72, 1908, p. 5. (2) L. Vaccari, L’abate Amato Gorret , in Bollettino del Club Alpino Italiano , Vol. XXXIX, n. 72, 1908, nota 5 p. 16. (3) L. Vaccari, L’abate Amato Gorret , in Bollettino del Club Alpino Italiano , Vol. XXXIX, n. 72, 1908, nota 2 p. 8.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 13 mag, 2024
Vogliamo... vederci meglio! Agli inizi del Novecento, il settore alberghiero valdostano stava attraversando un periodo di rapida evoluzione, tuttavia molte strutture sembravano non aver seguito il passo del progresso, mantenendo un’architettura non sempre adeguata alle esigenze dei viaggiatori moderni. Nel 1908, per esempio, le lamentele dei turisti riguardavano in particolar modo la mancanza di camere spaziose e luminose, soprattutto in alcune località come Courmayeur e Valtournenche, dove spesso si trovavano stanze con muri alti e finestre piccole dove on enferme les voyageurs . Al contrario - come sosteneva un giornale dell’epoca (1) - in altre aree come la Svizzera e la Savoia, le strutture moderne offrivano vasti saloni con grandi finestre e vetrate luminose, che rappresentavano una scelta sempre più apprezzata dai viaggiatori. Purtroppo, per l’immagine della Valle d’Aosta, riviste come quelle del T ouring Club, du Sport et des Clubs Alpins riportavano le lamentele dei turisti contre le genre adopté dans la construction des hôtels Valdôtains . In quel 1908, l’inaugurazione del Grand Hôtel Billia di Saint-Vincent rappresentava, per fortuna, un salto in avanti nella modernità e nel comfort per gli ospiti. Lo stesso si poteva dire dell’ Hôtel du Mont-Néry di Issime, che passava dalle mani di Louis Balla - qui lui a créé sa renommée - a quelle del proprietario dell’Hôtel Savoia di Genova. (2) Nonostante ciò, molte altre strutture restarono ancora a lungo sprofondate nel loro stile un po’ retrò. Non perché quegli albergatori preferissero mantenere l’atmosfera nostalgica delle loro strutture, ma perché il concetto moderno di turismo, comodità, accoglienza e di efficienza doveva ancora fare molta strada in Valle d’Aosta... e tutta in salita... (1) Le Mont-Blanc , 2 ottobre 1908. (2) Le Mont-Blanc , 20 marzo 1908.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 09 mag, 2024
Salvato da una cipolla Il 13 aprile del 1902, ad Aosta, un giovane studente della buona società, figlio di uno dei professionisti più distinti della città ( fils d’un de nos professionnistes les plus distingués) , fu oggetto di una violenta aggressione che avrebbe potuto avere conseguenze molto più tragiche. Verso mezzanotte, il ragazzo lasciò l’abitazione di un parente per fare ritorno a casa. Mentre camminava davanti al Vescovado, fu avvicinato da tre individui sconosciuti che lo assalirono improvvisamente. Con una forza brutale, il giovane fu colpito al cuore, ma grazie alla sua robustezza, riuscì a respingere uno degli aggressori con tutte le sue forze e a fuggire a gran velocità fino a casa sua, temendo di essere nuovamente attaccato. Una volta al sicuro nella sua stanza da letto, il ragazzo si accorse che il colpo infertogli con un grosso pugnale aveva trafitto i vestiti, il fazzoletto e il portamonete, fino a infrangere il vetro dell’orologio a cipolla. La polizia si mise subito alla ricerca dei colpevoli: réussira-t-elle à s’en emparer? Il faut l’espérer pour la tranquillité de notre population , si augurava un giornale dell’epoca. (1) Comunque, nei giorni successivi i poliziotti pattugliarono la zona con grande preoccupazione mesurant de haut en bas la Place Charles Albert avec leur compagnons habituels ont pris un air bien préoccupé , segno che stavano facendo del loro meglio per garantire la sicurezza dei cittadini. “Nel frattempo” - concludeva il giornale - “indirizziamo le nostre felicitazioni per lo scampato pericolo al nostro amico e alla sua famiglia”. Quando le cipolle non fanno piangere...
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 06 mag, 2024
Le grandi scarpe dell’ abbé Henry Il 22 novembre 1922, il giornale valdostano Le Duché d’Aoste pubblicò un articolo dedicato al reverendo Joseph-Marie Henry (1870-1947), all’epoca già riconosciuto da tutti come un appassionato di montagna, abile alpinista e scrittore. Tali erano le sue passioni che le guide di Courmayeur lo elessero guida alpina onoraria. (1) Poiché l’articolo originale è ricco di gusto e colore, eccolo proposto tradotto in italiano: “Chi non conosce l’ abbé Henry? (2) È vero, si chiama Joseph, ma Henry è il suo nome e cognome. Così lo conoscono in Francia, in Svizzera, in Germania, in Inghilterra; insomma, ovunque e anche altrove. In Valle d’Aosta, si sanno solo due cose su di lui: che non segue l’ultima moda (3) e che tutte le belle e maestose montagne che ci circondano lo conoscono e forse lo trattano con famigliarità. Infatti, c’è forse una vetta, una roccia o un truc che non sia mai stato calpestato dalla scarpa di un uomo? L’ abbé Henry lo consacrerà con le sue scarpe grosse, perché ha scarpe grosse, e dà un nome a quelle punte che, da quando mondo è mondo, non avevano mai pensato di averne uno. L’ abbé Henry è un vero “battezzatore” di punte. E i suoi compagni di ascensione? I suoi migliori compagni sono quelli che lo lasciano andare da solo, perché coloro che vanno troppo veloci sono cattivi alpinisti, e quelli che vanno troppo lentamente non sono migliori degli altri. C’est le principe de l’abbé Henry (Questo è il principio dell’ abbé Henry). Guardandolo, chi direbbe che ha un’anima da poeta? In quegli occhi di un grigio perlato, o forse di un azzurro glauco, se si ritiene ciò più poetico, si nasconde una malizia benevola, una semplice ironia che ti lascia nell’incertezza se sta scherzando gentilmente con te o se ti sta dando una lezione interessante di botanica, in cui eccelle. Perché eccelle in botanica. Assieme a tutto questo, ha un cuore d’oro, un talento distinto, un amore per il lavoro poco comune e... scarpe grosse: “scarpe grosse, cervello fino”. L’articolo si concludeva rallegrandosi per il titolo di “Cavaliere Ufficiale della Corona d’Italia” appena conferitogli dal Governo. “Tutti lo troveranno naturale” - affermava il giornale - “solo l’ abbé Henry sarà sorpreso”. Il 26 novembre 1947, l’ abbé Henry morì a Valpelline, comune della Valle d’Aosta posto nelle vicinanze del Gran San Bernardo, dove fu parroco dal 1903 al 1947. Un giorno scrisse: “Voglio essere sepolto con i due miei inseparabili compagni; la piccozza e il breviario. Con la prima busserò alla porta del Paradiso, col secondo mi farò riservare un angolino dietro la porta”. (4) Immagine di copertina: L’ abbé Henry tra Maria José di Savoia, principessa di Piemonte (la futura Regina d’Italia), e l’ abbé Jean Bonin a Valpelline nel 1938. Revue Valdôtaine , gennaio 1948, n. 1, p. 12. (1) Le Duché d’Aoste , 16 marzo 1904. (2) In Valle d’Aosta, il titolo abbé non è traducibile in “abate”, ma equivale all’italiano “don” o “reverendo”. (3) Il suo abito talare liso, logoro, diventò quasi leggendario. (4) A tale proposito, Umberto Pelazza chiosò: Forse per tirar fuori la pipa di nascosto da San Pietro. Neanche in Paradiso ha preteso granché . U. Pelazza, L’abbé Henry alpinista , in R evue Valdôtaine d’Histoire Naturelle , n. 51, 1997, p. 37.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 02 mag, 2024
La commovente fedeltà di un cane Come riportato da un giornale australiano del 1937, la toccante dimostrazione di fedeltà di un cane scosse le emozioni di molti ad Aosta in seguito a un triste evento che era accaduto in precedenza al suo padrone. (1) Un anno prima, infatti, in un tragico incidente motociclistico, perse la vita un esercente di Aosta. Da quel giorno, il suo cane continuò a manifestare una viva inquietudine, spesso scomparendo da casa proprio nell’ora in cui era avvenuta la disgrazia e ritornando solo a sera tarda. Non ci volle molto a comprendere cosa stesse succedendo. Emerse presto che la povera creatura si recava sul luogo dell’incidente e con le zampe scavava la terra ancora intrisa del sangue del suo proprietario. Successivamente, il cane si dirigeva al cimitero, dove sostava sulla tomba del suo padrone. Il destino ha voluto ora che la bestia trovasse, nell’anniversario della morte del padrone, uguale fine. Il cane infatti, di ritorno dal camposanto, e’ stato investito e ucciso da una macchina. Questa è una storia dolorosa sulla scomparsa di un uomo e del suo cane. (1) La commovente fedeltà di una cane , Italo-Australian , 16 gennaio 1937.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 29 apr, 2024
L’ironia dell’ abbé Gorret Un giorno, accadde che un signore ebbe l’ardita idea di mettere alla prova il Grand Gorret (1) con una semplice domanda filologica a bruciapelo, ma presto capì che non aveva fatto un buon affare. “Potreste dirmi”, chiese al tranquillo abbé Amé Gorret (1836-1907) che si trovava seduto tranquillo davanti a una modesta bottiglia, “qual è la differenza tra ‘accidente’ e ‘sfortuna’?” “È semplicissimo”, rispose il sacerdote. “Immaginate: cadete nella Dora Baltea, ecco l’accidente; ma se poi accorrono a salvarvi, beh, ecco la sfortuna”. (2) Così sottile e tagliente come solo l’ abbé Gorret sapeva essere. (1) Amé Gorret (1836-1907), religioso originario di Valtournenche, si distingueva per il suo carattere eccezionale, rude e caustico, accompagnato da un eloquio vivace e spiritoso che spesso gli attirava critiche aspre sia all’interno che all’esterno della Chiesa. Era come una pedina sullo scacchiere, costantemente spostato da una parrocchia all’altra nella Valle d’Aosta e oltre. (2) Mots d’esprits du grand Gorret. Un monsieur eut un jour la malheurese idée de taquiner le Grand Gorret en lui proposant à brüle-pourpoint une trop simple question philologique, et il en fut payé de la bonne monnaie. “Sauriez-vous me dire - avait-il demandé à l’abbé assis tout tranquille devant une modeste bouteille quelle différence il y a entre les mots “accident” et “malheur”? . Le Pays d’Aoste , 10 febbraio 1959.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 25 apr, 2024
... francofoni, non francesi... Non è così semplice ritrovare così tante sciocchezze raccolte insieme in un articolo. Tutte frutto, ovviamente, della propaganda del regime fascista; parole che avrebbero voluto riscrivere maldestramente la storia con errori così grossolani che, anche cercando di scovarne la natura, suonano così incredibili da risultare del tutto inverosimili. L’articolo in questione, pubblicato del 1939 ed intitolato “ Patriottismo Piemontese. Comuni della Val d’Aosta che chiedono di italianizzare il loro nome ”, è qui riproposto senza tutta la parte finale che propone la lunga lista dei toponimi valdostani tradotti in italiano. (1) Il giornalista, infatti, sosteneva che in quell’anno la “campagna antitaliana scatenata in Francia” aveva “trovato rispondenza nel più vivo risentimento nella gente valdostana che ha elevato la sua voce e la sua fiera protesta” inducendo i podestà all’italianizzazione dei toponimi locali. Perché “nella Val d’Aosta, nonostante il profondo senso di italianità manifestato nel corso dei secoli da Umberto Biancamano ai Conti di Challant e dai Capitani Chamonin e Darbelley ai valorosi alpini del battaglione 'Aosta' che hanno conquistato sul Vodice e sul Solarolo la medaglia d’oro al valor militare, i nomi di marca straniera sono numerosissimi.” “Ad esasperare vieppiù i valdostani nel loro sentimento nazionale, sono venuti ultimamente gli attacchi dei giornali francesi e le grossolane accuse mosse dai rinnegati e degli antifascisti per stabilire una parentela tra aostani e francesi che non è mai esistita. Basti pensare alla resistenza dei valligiani alle truppe napoleoniche e alla strenua difesa agli sbocchi della Val Grisanche, per farsi un’idea della diversità origine di stirpe tra valdostani e la gente d’oltre Alpe, nonostante la comunanza di lingua”. E ancora: “un alpino valdostano, rimproverato da un superiore perché parlava francese, dichiarò una volta che lo parlava solo perché era utile ‘conoscere la lingua del nemico’. Il gesto spontaneo dei valligiani in questo momento assume dunque un grande significato storico e politico, sfatando una leggenda che offende nel profondo dell’animo tutta la popolazione valdostana”. Sappiamo benissimo che non furono certo i valdostani, amanti e difensori della loro lingua, il francese, a chiedere l’italianizzazione, ma l’ establishment del Fascio. Ma sostenere “il profondo senso di italianità” di Umberto Biancamano (980 circa -1048 circa), agli Challant (secoli successivi) o ai capitani Darbelley e Chamonin (XVIII secolo) fa proprio ridere: un pot-purri di epoche, geografia, storia, nazionalità diverse mischiate insieme come se lo Stato sabaudo avesse sempre avuto una concezione millenaria di una futura nazionalità italiana da perseguire. Sarebbe come sostenere che gli antenati britannici di George Washington avessero coltivato nel lontano medioevo un profondo senso per una futura patria statunitense. La resistenza contro i francesi dei valdostani dalla Valgrisenche durante la guerra delle Alpi (1792-1796), poi, non era per difendere il sacro suolo italiano (che non esisteva neppure), ma quello del Regno di Sardegna; la Valle d’Aosta, poi ed è bene ricordarlo, confina direttamente con la Francia solo dal 1860... Oltre le creste, c'è la Savoia. Sorella primogenita della Vallée, era lei a confinare con la Francia. Infine, la dichiarazione dell’alpino, che se vera, si commenta da sé. Credere in quelle parole sapendo che la Valle d’Aosta fu la prima amministrazione ad impiegare pubblicamente il francese nel 1536, tre anni prima della Francia, e che fino all’arrivo del fascismo ben oltre il 90% della popolazione era francofona... Detto ciò i toponimi ridicoli italiani che la Valle d’Aosta subì per qualche anno furono cancellati con la fine della guerra per tornare, non francesi, ma in francese, o, meglio, tornare valdostani. Valdostani. (1) Italo-Australian , 11 marzo 1939.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 22 apr, 2024
La leggenda dell’ aquila di Aosta C’è una leggenda (1) che narra che ogni volta che un re appartenente a Casa Savoia muore, un’enorme aquila viene avvistata attraversare le Alpi sopra la Valle d’Aosta e sulla città di Aosta in direzione della Savoia, e tra i valdostani prevaleva la convinzione che quel rapace guidasse l’anima del defunto sovrano ad unirsi a quelle dei suoi antenati. Il fatto sarebbe stato osservato in occasione della morte dei sovrani Carlo Alberto (1798-1849) e di suo figlio Vittorio Emanuele II (1820-1878). Nel Novecento, però, la leggenda fu messa in dubbio persino dagli stessi abitanti della Valle d’Aosta, tanto è vero che, quando re Umberto I fu assassinato a Monza nel 1900, non ci fu nessun avvistamento di aquile dirette oltre il Monte Bianco. Ma la questione si riaprì poco tempo dopo, quando nel 1909 il giornale Fieramosca di Firenze pubblicò una lunga lettera scritta dal capitano Basletta (2) che affermava che nell'estate del 1900, (3) mentre era al comando di una squadra di soldati accampati a “Pian Paladino” (4) vicino ad Aosta, mentre la squadra pranzava, vide un’enorme aquila volteggiare sopra il campo. L’ufficiale, allora, afferrò un fucile da uno dei soldati e stava per sparare, quando una vecchia contadina che passava di lì si scagliò su di lui e gli impedì di aprire il fuoco. Poi raccontò la leggenda e disse che il re doveva essere morto. Naturalmente, nessuno le credette, ma il giorno seguente la notizia dell’assassinio di Umberto I avvenuta la sera del 29 luglio, raggiunse il campo. Nello stesso articolo, il capitano Basletta forniva i nomi di tutti gli uomini che erano con lui e che videro l’aquila e sentirono raccontare la leggenda dall’anziana contadina. Nel 1903, ad Aosta fu eretto un monumento (5) dedicato a re Umberto I. Si trova nei pressi della Tour du Pailleron, tra i giardini pubblici Lussu e la stazione ferroviaria e presenta al di sopra del blocco marmoreo in cui emerge la testa del re, un’enorme aquila. Sicuramente, questa coincidenza non ha alcun legame con il rapace della leggenda, poiché quella simbologia ha altri significati, ma rimane un elemento aneddotico da associare al monumento. Immagine di copertina: il monumento ad Umberto I, Aosta; foto d'epoca. (1) The Aosta Eagle. A legend of the House of Savoy : The Star , 13 novembre 1909; The Grafton Argus and Clarence River General Advertiser , 7 gennaio 1910. (2) Il capitano e cavaliere Ambrogio Basletta, poi Maggiore, fu distaccato ad Aosta nel 1893. Per un certo periodo, in qualità di scrittore, collaborò con alcuni periodici valdostani. (3) Non è chiaro se in quel momento l’ufficiale era ancora di stanza in Valle d’Aosta. (4) Si tratta di un errore dei giornali australiani citati in precedenza. Pian Paladino si trova in provincia di Cuneo, forse si tratta della zona di Palasinaz, colle tra Brusson e Ayas. (5) L’opera è dello scultore Edoardo Rubino (1871-1933).
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 17 apr, 2024
52 sindaci valdostani a processo nel 1902 Quando la burocrazia è eccessiva... Una curiosa notizia ci arriva direttamente dalla cronaca del 1902, quando ben tre quarti dei sindaci valdostani furono chiamati a processo per alcune violazioni contestate loro dall’amministrazione dello Stato. La notizia suscitò molto scalpore, non solo in Valle d’Aosta, ma trovò anche l’accordo delle diverse testate giornalistiche locali nel criticare severamente il caso. Infatti, un giornale sosteneva che nous nous trouvons évidemment devant un de ces cas de fiscalisme inouï dont notre bureaucratie a le secret , (1) mentre un altro dichiarava che c’est inouï; mais c’est vrai . (2) Non solo gli organi d’informazione rimasero sbalorditi dinnanzi a tale eccesso di burocrazia, ma anche toute la population a été indignée des vexations infligés à nos dévoués et excellent syndics de nos communes valdôtaines . (3) In particolare, ben 52 sindaci valdostani finirono sotto processo semplicemente per non aver barrato in nero con la penna gli spazi di linea rimasti bianchi nei registri pubblici e per aver troppo spesso utilizzato le stesse persone come testimoni negli atti di loro competenza. (4) L ’onorevole valdostano Alphonse Farinet fu chiamato a difenderli, spiegando probabilmente la difficoltà di trovare facilmente testimoni in occasione di atti pubblici. Molti comuni, infatti, avevano pochi abitanti, i villaggi erano sparsi sul territorio e, quindi, lontani dal Municipio, e una parte della popolazione era impiegata in montagna o altrove, quindi on n’a pas l’embarras du choix . (5) Inoltre, era meglio che i testimoni fossero di conoscenza dal sindaco, piuttosto che proposti dai cittadini. Il 17 febbraio 1902, il Tribunale, riunito in Camera di Consiglio, comminò una multa di 10 lire a coloro che ritenne colpevoli della prima accusa, mentre gli altri furono assolti. Quale fu il “bel risultato di tale pedanteria burocratica?”, si chiedeva un giornalista. (6) La risposta arrivò da un altro corrispondente, il quale informò come numerosi “imputati, disgustati dalle esigenze burocratiche”, si dimisero dal loro incarico; “questa determinazione è deplorevole, poiché talvolta priva una comunità di un sindaco coscienzioso, attivo e molto capace nell’amministrarla”. (7) Passano gli anni, ma la burocrazia resta una costante dell’amministrazione italiana e talvolta certa pignoleria non solo sfugge alla comprensione, ma non è giustificata da uno Stato che dovrebbe essere padre e non padrone... (1) Jacques Bonhomme , 14 febbraio 1902. (2) (...) “ci trovavamo evidentemente di fronte a uno di quei casi di fiscalismo eccessivo di cui la nostra burocrazia ha il segreto”, mentre un altro dichiarava che “è incredibile, ma purtroppo vero”. Le Duché d’Aoste , 26 febbraio 1902. (3) (...) “l’intera popolazione fu indignata dalle vessazioni inflitte ai nostri devoti e eccellenti sindaci delle nostre comunità valdostane”. Le Mont-Blanc , 21 febbraio 1902. (4) L’Union valdôtaine, 28 febbraio 1902. (5) Jacques Bonhomme , 14 febbraio 1902. (6) Jacques Bonhomme , 21 febbraio 1902. (7) (...) inculpés, dégoutés des exigences bureaucratiques , si dimisero dal loro incarico; cette détermination est regrettable, car elle prive parfois une commune d’un chef consciencieux, actit et très capable de l’administrer . Le Duché d’Aoste , 26 febbraio 1902.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 15 apr, 2024
Chi ha ucciso il famoso abbé Gorret? Amé Gorret (1836-1907), religioso originario di Valtournenche, era dotato di un carattere singolare, brusco e caustico, con una verve piquante et enjouée , (1) che gli attirava spesso critiche accese dentro e fuori la Chiesa. Era una sorta pedina sulla scacchiera, spostato di continuo di parrocchia in parrocchia nella Valle d’Aosta e non solo. (2) Ma un giorno, nel 1887, per far capire a tutti che non era affatto sparito dalla circolazione e che era ancora vivo, Gorret scrisse una lettera sarcastica e curiosa a un giornale valdostano, intitolata Faux bruits . Con un tono ironico, il religioso rassicurava tutti di essere ancora in vita; nessuno, dunque, lo aveva ucciso come forse qualcuno poteva supporre. Ecco un estratto di quella curiosa missiva: Il me parvient que je suis mort en plusieurs endroits, et je ne sais encore de combien de genres de mort . (3) “È quindi necessario che io dia di nuovo un segno di vita e se questo mio modo di esprimermi sembra un po’ brusco, prendetevela con il modo prematuro e violento con cui si sono compiaciuti di uccidermi. State pur certi che sono ancora al mondo et quoique tout n’y soit pas rose, je tiens à me départir de la vie que le plus tard possible ”. (4) Gorret aveva ragione: all’incontro con il Creatore gli mancavano ancora vent’anni. Periodo in cui, anche se la robe qu’il portait étouffa ses meilleurs sentiments et ses plus belles aspirations , (5) il religioso fu molto attivo. Infatti, dopo la sua morte, il giornale J acques Bonhomme , nell’edizione del 15 novembre 1907, elogiò il religioso, riconoscendo il suo grande amore per il paese, la sua penna vivace ed elegante e uno stile giocoso che lo avevano reso uno dei più famosi scrittori valdostani, ma anche rammentando il suo carattere indipendente che mal si accordava con le regole ecclesiastiche, così come i suoi modi che lo mettevano talvolta in condizioni non consone al suo ruolo. (6) Tornando a quel 1887, nessuno e ovviamente nessuno aveva ucciso l’ Ours de la montagne , come anche veniva soprannominato Gorret. Qualcuno aveva tentato sì di annientare qualcosa: la sua verve e la sua eccentricità. Fortunatamente, quel qualcuno non era riuscito nel suo intento; non aveva cancellato affatto quel genio, quel suo modo di essere e di esprimersi che ci hanno consegnato un Gorret che ricorda in qualche modo il personaggio di don Camillo uscito dalla penna di Giovannino Guareschi. Preti d'altri tempi... Immagine di copertina: L' abbé Gorret, fonte: C.A.I., Public domain, via Wikimedia Commons . (1) Le Mont-Blanc , 8 novembre 1907. (2) Tra il 1880 e il 1883 fu parroco nella zona di Grenoble (Francia). (3) “Vengo a sapere di essere morto in diversi luoghi, e non so ancora con quali modalità sarei morto”. (4) “E anche se non tutto è rose e fiori, auspico di lasciare la vita il più tardi possibile”. Feuille d’Aoste , 1° giugno 1887. (5) (...) “la veste che indossava soffocava i suoi migliori sentimenti e le sue più belle aspirazioni” (...). Le Mont-Blanc , 8 novembre 1907. (6) On nous annonce la mort, survenue au Prieuré de Saint-Pierre, où il était recouvré, de l’abbé Amé Gorret. Né à Valtournanche en 1836, il fut successivement vicaire dans nombre de communes et finit recteur à St-Jacques d’Ayas. Son caractère indépendant s’accomodait peu avec la vie sédentaire de l’ecclésiastique en même temps que ses.... originalités un peu outrées le mirent quelques fois dans des conditions peu en harmonie avec sa situation. A part cette petite ombre, comme tous en ont dans leur vie, il est juste de reconnaître chez le défunt, un grand amour pour son pays, une plume vive et élégante, un esprit caustique et un style enjoué qui en firent un des écrivains les plus remarquables de notre Vallée. Il s’occupait plus particulièrement des choses d’alpinisme, dans lequel il savait aussi payer de personne et d’histoire du pays. Il fut honoré de l’amitié de plusieurs illustrations de la politique, des lettres et de la science, et il laisse certainement, dans notre littérature valdôtaine, une brillante trace de son passage. Jacques Bonhomme , 15 novembre 1907.
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