Il Principato della Valle d'Aosta
Mauro Caniggia Nicolotti • 10 settembre 2020
Il Principato della Valle d’Aosta
Nel corso dei secoli diverse volte la Valle d’Aosta si è avvicinata alla possibilità concreta di diventare Stato. La più evidente che vale la pena raccontare risale alla fine della Seconda guerra mondiale.
Nel 1944, infatti, tra le correnti separatiste dall’Italia si fece strada anche l’ipotesi della costituzione di una repubblica indipendente della Valle d’Aosta.
Ad onor del vero, già il 1° novembre 1943 l’ingegner Lino Binel(1) ne tratteggiò le possibilità in una lettera indirizzata addirittura a Il Popolo di Aosta, organo del partito fascista repubblicano: Trattando ora “de minimis”, cioè della “repubblica valdostana o qualcosa di analogo”, ritengo profondamente ingiusto e dovuto ad ignoranza storica l’ostracismo che da troppi anni si dà a tutto ciò che è valdostano. Considero inoltre semplicemente sproporzionata la definizione di “separatista” a ogni legittima campagna di tutela di onesti interessi e diritti che si vorrebbero calpestare con agio ponendoli su un piano politico.
Sembra che il suo arresto organizzato di lì a poco trovi causa proprio in quella lettera; un mese e mezzo dopo fu rilasciato.
Idea - quella indipendentista - che fu intercettata anche dalla principessa Maria José di Savoia, figura di spicco che instaurò alcuni contatti per capire se era possibile intervenire tempestivamente e con diplomazia per suggerire l’idea di un principato come quello di Monaco e del Lichtenstein che, godendo di particolari privilegi e regali attributi, sarebbe presto assurto ad una grande prosperità.(2)
Tale prospettiva non passò inosservata nemmeno alle autorità del Regime fascista, che così la relazionò nei suoi documenti: nell’Alta Valle di Aosta circolano emissari che sarebbero stati invitati dalla ex principessa di Piemonte allo scopo di svolgere una attiva propaganda per arrivare ad una scissione di territorio che dovrebbe dar vita ad un principato a nome del figlio.(3)
La Regina, comunque, lasciò un memoriale (che, però, è segretato per vent’anni dal decesso avvenuto nel 2001), ma di cui al momento si sarebbero perse le tracce: non so dove sia
- ha dichiarato il figlio Vittorio Emanuele -, ma credo che sia in Inghilterra.
La vicenda di uno Stato indipendente è ancora tutta da chiarire. Una monarchia costituzionale che, secondo alcune fonti, sarebbe stata ben accolta, per esempio, da ambienti britannici. I quali, comunque, avevano tutto l’interesse a non farsi coinvolgere direttamente onde non turbare i delicati equilibri internazionali di quegli anni, soprattutto con gli Alleati. Probabilmente è in questi termini che va ascritta la presenza di un maggiore neozelandese - insieme a quella di un colonnello inglese - ad una riunione svoltasi a Verrès nel maggio del 1945 in casa di Eugenio Corniolo,|(4) alla presenza di Maria José e dell’amico Albert Deffeyes(5) e avente lo scopo precipuo di discutere di quelle vicende, al fine anche di salvaguardare i destini della Famiglia Reale, molto in bilico dopo la caduta del Fascismo.
Il progetto di uno Stato valdostano fu caldeggiato anche dal Gruppo d’unione Camillo Cavour, una formazione filomonarchica nata in clandestinità. Tracce del coinvolgimento di tale sodalizio si trovano anche contenute in una relazione del Partito Comunista Italiano (Federazione provinciale di Torino) datata 27 febbraio 1945. La notizia era chiara: Esiste un gruppo Cavour che vorrebbe fare della Valle d’Aosta un rifugio di casa Savoia, una specie di principato di Monaco.(6) Al progetto erano ovviamente legati diversi personaggi valdostani, tra i quali - oltre a Deffeyes - si ricorda Amédée Berthod, il quale fondait de grands espoir dans la régence de la princesse Marie-José de Piémont.(7)
La presenza di uno Stato valdostano cuscinetto avrebbe cambiato non poco la geografia sociale, politica ed economica di questa porzione del continente, anche in considerazione della notevole ricchezza rappresentata dalle risorse idriche (e quindi energetiche) valdostane. Ma di queste idee non si trovano che poche e saltuarie tracce nella documentazione storiografica ufficiale, soprattutto nei primi decenni dopo la guerra. D’altronde la possibile presenza, all’interno dei precedenti confini italiani, di uno Stato retto dalla famiglia dei Savoia come poteva essere accolta e raccontata in una repubblica che aveva sancito nella sua stessa Costituzione il bando integrale di quella casata dal suo territorio? Un confino che ha peraltro resistito per ben 56 anni, ossia dal 1946 al 2002... (8)
Pur essendo deceduta in vigenza di tale esilio, comunque, la regina Maria José chiese ed ottenne al suo funerale l’esecuzione di Montagnes Valdôtaines;(9) un tributo al suo amore per la Valle d’Aosta e per le sue montagne.
L’ipotesi di riconoscere alla Valle d’Aosta una indépendance ou au moins son autonomie complète
garantita dall’ONU fu richiesta, inoltre, anche dai valdostani di Parigi. Una questione molto delicata che aveva già coinvolto la Francia (interessata ai destini della regione) fin dai giorni successivi alla Liberazione e che fu trattata a margine della Conferenza di Pace che si svolse a Parigi tra il 29 luglio e il 15 ottobre del 1946.
La delegazione neozelandese si era offerta pubblicamente di sostenere le rivendicazioni valdostane. Forse - come anticipato - essa era già coinvolta nell’affaire
da tempo, cioè fin da quando nel maggio 1945 si stava prospettando l’ipotesi di costituire il Principato valdostano di cui si è raccontato poc’anzi. Ma probabilmente rappresentava anche gli interessi dei governi britannico e statunitense, che non volevano apparire in prima linea nel difendere rivendicazioni territoriali che potevano turbare i delicati equilibri postbellici con gli Alleati.
Nella capitale francese, però, i vari incontri che alcuni rappresentanti valdostani dovevano intavolare per ottenere la fondamentale copertura di garanzie internazionali all’autonomia valdostana diedero luogo a quasi una farsa quasi da operetta. Fallirono proprio a causa dell’impegno ambiguo valdostano, che ad un certo punto inspiegabilmente rinunciò alla partita, lasciando di stucco le legazioni della Nuova Zelanda, del Belgio e degli Stati Uniti che, in modi diversi, si erano impegnate a perorare causa per la situazione valdostana durante la Conferenza di Pace.(10)
Così finì il sogno indipendentista di quegli anni...
- Tratto da: Il teorema di Davide. Ha senso una Valle d'Aosta indipendente?
di M Caniggia Nicolotti e L. Poggianti
Note: (1) Lino Binel (1904-1981) fu antifascista, iscritto alla
Jeune Vallée d’Aoste
e tra i promotori del movimento della Resistenza. Fu arrestato insieme a Chanoux nel 1944 e poi deportato in Germania. Rientrato in Valle, contribuì a fondare l’Union Valdôtaine. (2) E. Consolo, I corrieri delle rose, p. 293. (3) R. Nicco, La Resistenza in Valle d’Aosta, p. 167 e nota 22.
(4) Nota figura di partigiano combattente e difensore dell’etnia valdostana. (5) Esponente e ideologo dell’Union Valdôtaine, che venne costituita di lì a pochi mesi. (6) R. Nicco, La Resistenza in Valle d’Aosta, p. 167 e nota 22. (7) S. Caveri, Souvenir et révélations: Vallée d’Aoste, 1927-1948, p. 94. (8) Con la legge costituzionale n. 1/2002 vennero fatti cessare a partire dal 10 novembre 2002 gli effetti della disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana che vietava ai Savoia l’ingresso e il soggiorno su tutto il territorio italiano. Vi sono, comunque, numerose testimonianze non ufficiali della presenza di Maria José in Valle durante il periodo di esilio. (9) La Stampa, 3 febbraio 2001. (10) G. Torrione, Tàppa lo ba-Buttalo giù. 1946, Valle d’Aosta tra autonomia e annessionismo. Cronaca giornalistica di un anno difficile, pp. 128-141.

Il “Sindaco di legno” in Valle d’Aosta Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, la stampa valdostana si accese attorno a una figura singolare e beffarda: il syndic de bois , il “sindaco di legno”. L’espressione, nata come satira politica, metteva in luce le lacerazioni delle comunità locali, dove le elezioni comunali si trasformavano spesso in scontri tra famiglie, villaggi e soprattutto tra clericali e liberali. Già nel 1893 Le Valdôtain , giornale cattolico moderato, scherzava scrivendo che in un certo Comune sarebbe stato utile eleggere un “sindaco di legno”, più imparziale e meno incline alle “gelosie di partito”. Non una persona scelta dalla cosiddetta opinion publique . Quest’ultima era invece fatta da interessi privati: prendeva un uomo, lo vestiva a nuovo, lo lucidava, lo trasformava di tutto punto e lo conduceva ad Aosta pour lui montrer où se trouve la Sous-Préfecture . (1) Un sindaco impersonale, insomma, che non offendesse nessuno: “di paglia o di legno, basta che non lo si incendi subito”… Molti anni dopo, la polemica venne ripresa con toni ancora più accesi dal giornale anticlericale Le Mont-Blanc . Nel dicembre 1910 un gruppo che si firmava “del partito liberale” propose di affidare gli affari comunali a un sindaco fittizio, immobile come una statua, che non perdesse tempo, come sovente accade, a frequentare le osterie con il suo seguito. “Almeno” – scrivevano con sarcasmo – “un sindaco di legno farebbe risparmiare, salvo la spesa per lo scultore, ovviamente”. E, in un crescendo dissacrante, suggerivano perfino di collocarlo in chiesa, accanto al grande crocifisso, in un’incredibile “collaborazione” simbolica che – dicevano – avrebbe attratto ancora più bigots . (2) La provocazione non rimase senza risposta. Qualche giorno dopo, una lettera firmata da un gruppo di donne cattoliche (forse autentica, forse costruita dal giornale stesso) difese il crocifisso come emblema sacro della Redenzione, bollando la trovata del sindaco di legno come un’offesa alla dignità. (3) La disputa si accese ulteriormente quando un giovane consigliere comunale valdostano scrisse al giornale: i lettori – ironizzava – ne avevano ormai les boîtes pleines di sindaci di legno. Quanti ce n’erano già nella Valle? E di chi la colpa? Forse di quegli elettori pronti a vendersi per un bicchiere di vino? Il giovane rivendicava con orgoglio che, almeno nel suo Comune, il sindaco era stato scelto bene: lontano dal profumo dell’incenso e ancor più lontano dall’essere “piazzato accanto al crocifisso”. Perché – concludeva con una punta di moralismo – le Christ était pur, innocent, ennemi de l’ivrognerie . (4) E oggi? Oggi le cose sono cambiate e, al di là della satira politica e dissacrante appena ricordata, sappiamo che i nostri sindaci valdostani, pur tra le mille difficoltà della società contemporanea, operano per il bene delle loro comunità. Al massimo, i “sindaci di legno” potrebbero diventare curiosi soggetti d’artigianato da inventare e mostrare alla Fiera di Sant’Orso… ma, in fondo, meglio di no. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) Edizione del 24 febbraio 1893. (2) Edizione del 23 dicembre 1910. (3) Le Mont-Blanc , 6 gennaio 1911. (4) Edizione del 3 marzo 1911.

I draghi sui tetti di Aosta Le riparazioni fatte per la distribuzione dell’acqua nei diversi quartieri della città, eseguite alle soglie dell’inverno 1860, furono accolte con favore dai cittadini di Aosta. L’acqua sarebbe stata distribuita da fontane a getto collocate a distanze convenienti, e quando il freddo avrebbe cominciato a farsi sentire, chiudendo le chiuse – e con accorgimenti che evitassero alle acque di tracimare e ristagnare – si sarebbero finalmente liberate le strade da quell’ammasso d’acqua che troppo spesso le trasformava in lastre di ghiaccio. Tuttavia, restava ancora – assicurava un giornale dell’epoca (1) – un miglioramento da compiere: la soppressione, il più presto possibile, delle gargolle a testa di drago ( gargouilles à tête de dragon ) che riversavano a cascata tutta l’acqua dei tetti. Pericolose, potevano provocare incidenti: quelque chute ou au moins quelque glissade (qualche caduta o almeno qualche scivolata). Si sarebbe potuto rimediare a questo inconveniente, suggeriva ancora il cronista, facendo stabilire delle condotte dalle case, soprattutto quelle che costeggiavano le vie principali, convogliando l’acqua dalle grondaie dei tetti in tubi che, scendendo lungo i muri, sarebbero sboccati in piccoli condotti sotterranei, uniti poi alle fogne. Nous savons bien qu’une semblable réparation ne peut se faire en un seul coup; mais nous savons aussi que la dépense supportée par les propriétaires des maisons ne sera jamais supérieure à celle qu’ils paient aujourd’hui . (2) Un’ultima osservazione riguardava la piazza Carlo Alberto, l’attuale piazza Chanoux: qui, durante le grandi piene, il canale che correva lungo il lato meridionale della piazza si gonfiava fino a diventare une rivière infranchissable , un fiume inattraversabile. Il rischio era che la corrente travolgesse i ponticelli che permettevano di superarlo, lasciando i cittadini senza passaggi sicuri. La proposta era semplice: disporre lastre di pietra molto semplici ma solide, sulle quali passare senza pericolo tutte le volte che l’acqua traboccava. Oggi quasi tutto scorre nascosto sotto l’asfalto, ma basta osservare certe vie, aprire le cronache dell’epoca o guardare una vecchia cartolina per ritrovare quel gorgoglio che un tempo dava voce ad Aosta. Immagine di copertina: Piazza Chanoux e una ponteille (a destra in basso); cartolina d'epoca. (1) L’Indépendant , 4 dicembre 1860. (2) “Sappiamo bene che una simile riparazione non può compiersi in un solo colpo; ma sappiamo anche che la spesa sostenuta dai proprietari delle case non sarà mai superiore a quella che essi pagano oggi”.

Aosta, la Roma delle Alpi Passeggiare per Aosta è come sfogliare un manuale di archeologia senza sfogliare nulla: basta alzare lo sguardo e ci si imbatte in un arco onorario, una porta monumentale, le mura, il teatro, il criptoportico. Pietre romane che non raccontano solo storie lontane, ma che hanno dato alla città un soprannome che ancora oggi risuona familiare: la Roma delle Alpi . Ma quando nasce davvero questo appellativo? E perché? Frugando tra le pagine di giornali ottocenteschi, la più antica definizione che sono riuscito a scovare risale al 1850. (1) Ma attenzione: non si parlava ancora di Roma delle Alpi , bensì di Rome du Piémont . E il Piemonte, in quell’epoca, non era soltanto l’idea geografica che abbiamo oggi: era anche il titolo politico del cuore del Regno di Sardegna, lo Stato sabaudo che teneva insieme il Piemonte, la Savoia, la Liguria e, naturalmente, la Valle d’Aosta. L’Italia unita non esisteva ancora, e nemmeno il concetto di "Alpi" come marchio identitario europeo. Dire 'Roma del Piemonte' significava, in fondo, inscrivere l’antica Augusta Praetoria Salassorum nel quadro sabaudo, come capitale simbolica di un’eredità gloriosa. Qualcosa cambiò tra Ottocento e Novecento. Non è solo il tempo del giovane stato unitario italiano, ma è anche il tempo delle prime guide turistiche illustrate, dei viaggiatori che si spostano per cultura e piacere, non solo per necessità. È lì che comincia a circolare con più forza l’immagine di Aosta come Roma delle Alpi : un modo nuovo, più ampio, di situarla non in un contesto politico, ma geografico, quasi naturale. La prima traccia certa che ho trovato risale al 1901. (2) Forse ce ne sono di precedenti, ma da quel momento l’espressione prende piede, fino a diventare quasi un marchio. Poi arriva il fascismo, e il nuovo epiteto trova terreno fertilissimo. Il regime esaltava la romanità come mito fondante della nazione, dell’impero: monumenti restaurati, architettura e retorica imperiale, celebrazioni. Aosta, con la sua densità di vestigia, diventa il laboratorio perfetto... anche per combattere il suo spirito autonomista e la sua francofonia. La Roma delle Alpi non è più solo un modo di dire, ma un titolo che entra nei discorsi ufficiali, nei manifesti, nelle guide, nei discorsi celebrativi. Oggi quell’appellativo è diventato un titolo culturale a pieno diritto. Dopo essere stato strumentalizzato in epoca fascista come emblema di romanità imposta, ha ritrovato il senso che aveva avuto nell’Ottocento: non più bandiera politica, ma marchio turistico e identitario, capace — con la forza delle sue pietre — di richiamare viaggiatori e curiosi da ogni parte del mondo. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) La Ville d’Aoste a été nommée la Rome du Piémont, à cause de ses antiquités : L. Pléoz, Le Garde National soit Almanach du Duché d’Aoste pour l’an 1850 , p. 68. (2) L’Union Valdôtaine , 29 novembre 1901.

13/09/1945 – 13/09/2025 Chi mi legge e conosce sa quanto profonda sia la mia passione per la storia e per le tradizioni valdostane. Oggi ricordiamo l’ Union Valdôtaine , che compie ottant’anni dalla sua fondazione. Per farlo, ho scelto di lasciarmi ispirare da un giornale dell’epoca, L’Union Valdôtaine del 15 dicembre 1945. “La Valle d’Aosta, lungo i secoli, ha sempre custodito la nostalgia delle proprie radici. Un sentimento che riaffiorava con forza ogni volta che pressioni esterne tentavano di soffocare la sua identità. Già dall’Ottocento il nodo più sensibile era la lingua francese, difesa con tenacia da generazioni di valdostani contro le spinte uniformatrici dello Stato. A quella battaglia se ne affiancarono altre: la richiesta di decentralizzare i servizi, mantenere le istituzioni locali, proteggere tutto ciò che rappresentava la specificità culturale e civile della nostra Valle. Le promesse di Roma restarono spesso lettera morta, e la fiducia nelle parole del governo venne meno. Poi arrivò il fascismo. Anche allora furono promessi rispetto e considerazione, ma la realtà fu una persecuzione dura, umiliante, che cercò di spegnere la nostra voce. Eppure il giunco valdostano ( le roseau valdôtain ) si piegò, senza mai spezzarsi. Così, quando la libertà tornò a far capolino, un gruppo clandestino fedele alle tradizioni uscì dall’ombra e devint légion .” In questo clima, segnato da lotte e speranze, il 13 settembre 1945 nacque l’ Union Valdôtaine , riconosciuta poco dopo dalle Autorità Alleate. Non più un movimento clandestino, ma un’associazione con il suo posto al sole, chiamata a essere al tempo stesso muro di difesa e forza di propulsione verso il futuro. Il suo appello era chiaro: unirsi per difendere tradizioni, diritti, cultura; lavorare per elevare la vita morale e sociale della comunità valdostana. Non un ritorno nostalgico, ma un passo deciso verso una ricostruzione che non poteva prescindere dall’identità. Collocata in quel contesto, la fondazione dell’ Union Valdôtaine rappresentò uno dei passaggi significativi della storia politica valdostana del secondo dopoguerra: da associazione culturale e identitaria a movimento politico, realtà che accompagna la vita pubblica della Valle d’Aosta fino a oggi. ---------- 13/09/1945 – 13/09/2025 Ceux qui me lisent et me connaissent savent combien ma passion pour l’histoire et les traditions valdôtaines est profonde. Aujourd’hui, nous nous souvenons de l’Union Valdôtaine, fondée il y a quatre-vingts ans. Pour le faire, j’ai choisi de m’inspirer d’un journal de l’époque, L’Union Valdôtaine du 15 décembre 1945. « La Vallée d’Aoste, au fil des siècles, a toujours gardé la nostalgie de ses racines. Un sentiment qui refaisait surface avec force chaque fois que des pressions extérieures tentaient d’étouffer son identité. Dès le XIXe siècle, la question la plus sensible fut la langue française, défendue avec ténacité par des générations de Valdôtains contre les poussées uniformisatrices de l’État. À ce combat vinrent s’ajouter d’autres : la demande de décentraliser les services, de maintenir les institutions locales, de protéger tout ce qui représentait la spécificité culturelle et civile de notre Vallée. Les promesses de Rome restèrent souvent lettre morte, et la confiance dans la parole du gouvernement s’en trouva ébranlée. Puis vint le fascisme. Là encore, on promit respect et considération, mais la réalité fut une persécution dure, humiliante, qui tenta d’éteindre notre voix. Pourtant, le roseau valdôtain plia, sans jamais se rompre. Ainsi, quand la liberté fit de nouveau son apparition, un groupe clandestin fidèle aux traditions sortit de l’ombre et devint légion. » Dans ce climat, marqué par les luttes et les espérances, naquit le 13 septembre 1945 l’Union Valdôtaine, reconnue peu après par les Autorités Alliées. Elle n’était plus un mouvement clandestin, mais une association ayant trouvé sa place au soleil, appelée à être à la fois un mur de défense et une force de propulsion vers l’avenir. Son appel était clair : s’unir pour défendre traditions, droits, culture ; travailler à l’élévation morale et sociale de la communauté valdôtaine. Non pas un retour nostalgique, mais un pas décidé vers une reconstruction qui ne pouvait pas se faire sans identité. Placée dans ce contexte, la fondation de l’Union Valdôtaine représente l’un des moments significatifs de l’histoire politique valdôtaine de l’après-guerre : d’association culturelle et identitaire, elle devint mouvement politique, une réalité qui accompagne la vie publique de la Vallée d’Aoste jusqu’à aujourd’hui.

Tutte le Aosta del mondo Provate a immaginare che il nome Aosta non appartenga solo alla nostra città alpina, con le sue mura romane e l’Arco di Augusto. Immaginate che quel nome abbia viaggiato lontano, si sia trasformato in Aoste, Aouste, Valdosta, lasciando tracce in borghi francesi, in sogni coloniali e persino sotto il sole della Georgia americana. È la storia sorprendente di un filo che parte da Roma e ancora oggi lega luoghi distanti. Tutto nasce dal latino Augusta , titolo imperiale che i Romani diedero a città nuove o rifondate in onore dell’imperatore. Così, oltre alla nostra Augusta Praetoria Salassorum , ritroviamo Aoste , nell’Isère, piccolo borgo francese che conserva tracce gallo-romane. Più a nord, nelle Ardenne, sorge Aouste , villaggio di campi e boschi con una chiesa medievale fortificata dedicata a Saint-Rémi. E ancora, nella Drôme, Aouste-sur-Sye , un alveare prealpino di case chiare dai tetti rosati dalle quali emerge un bel campanile. Ma la storia non si ferma qui. Nel 1940, durante la breve stagione coloniale italiana, fu annunciata persino un’“ Aosta d’Etiopia ”: un centro agricolo da fondare nell’Harrarino, dedicato al Duca d’Aosta viceré e alla nostra città. Ne parlarono i giornali, si ipotizzò persino un gonfalone da inviare dall’Italia, ma il progetto rimase lettera morta allo scoppio della guerra. E infine, come in un gioco di rimandi inattesi, attraversiamo l’Atlantico. Negli Stati Uniti, in Georgia, esiste Valdosta , città di oltre 50.000 abitanti. Il suo nome deriva da “Valle d’Aosta”, appellativo che un governatore diede alla sua piantagione nell’Ottocento. Lì, tra magnolie e clima subtropicale, sopravvive l’eco lontanissima della nostra Valle alpina. Ecco allora la piccola famiglia delle Aosta del mondo. Ognuna con il suo carattere, le sue storie e i suoi paesaggi. Sarebbe bello farle incontrare tutte, magari in un gemellaggio o una grande festa, sotto lo stesso nome antico che ancora oggi ci accomuna.

La leggenda che segue è ispirata a La Légende des dentelles de Cogne , scritta da Joséphine Duc-Teppex e pubblicata sul giornale Le Mont-Blanc il 17 agosto 1923. Il testo è stato da me reinterpretato e riscritto in italiano, mantenendone lo spirito popolare e narrativo. La leggenda delle dentelles di Cogne Un tempo, a Cogne, i lunghi inverni erano duri e monotoni. Le case, povere e buie, resistevano come potevano al freddo e alla neve. Nelle stalle, le famiglie si radunavano con vicini e amici, attorno al fuoco alimentato dalle pigne, per scaldarsi, parlare e raccontare storie. Fra tutti, il più atteso era Jérôme, che scendeva da Gimillan per raggiungere la casa del cugino Mathurin: passo sicuro, appuyé sur un gros bâton noueux, les souliers ferrés, le bonnet de laine enfoncé bien bas sur le front . Era il miglior narratore di montagna: conosceva non solo le storie dei vecchi, ma anche quelle raccontate nei libri, l’origine delle famiglie, persino i nomi delle pietre. Il était enfin la tradition du pays et sa science. Il en était de plus la sagess e ! Una sera d’inverno, le donne della stalla gli chiesero un racconto. J érôme sorrise e cominciò: «Questa storia non viene dai libri, ma dalla mia stessa nonna, Césarine. Un tempo ella era giovane e bella, ma povera e sola con suo padre, oppressa dai debiti. Un giorno, triste davanti alla porta, sospirò: “ Ah, se ci fossero ancora le fate buone, che aiutano chi soffre!” Ed ecco che apparve la mère Cunégonde, una fata alta e magra, con il capo incoronato di rododendri e un abete di cinque metri come bastone. “Ho visto la tua pena dalla cima del Gran Paradiso” le disse, “e vengo a consolarti” . Battendo tre volte a terra con la punta del suo bastone, fece comparire dieci minuscoli operai, spiritelli vivaci, non più alti di un fiammifero. Poi soffiò sulle mani di Césarine: i diavoletti entrarono nelle sue dita, trasformandole in strumenti di meraviglia. Infine, dalla punta del suo abete lasciò cadere un fiocco di ghiaccio purissimo del Gran Paradiso, così fine e trasparente da sembrare intagliato come i pizzi di Venezia. “Ecco il tuo dono” disse, “sta a te saperne trarre fortuna” . Poi si avviò verso il ghiacciaio della montagna. Da quel giorno, le mani di Césarine filavano e lavoravano pizzi così belli e delicati che presto si diffusero ovunque. Con il lavoro pagò i debiti, visse serena e non conobbe più la noia: i diavoletti, nascosti nelle sue dita, le tenevano compagnia mentre lei creava merletti e cantava». La bella Giovannina, una canavesana della Val Soana trasferita a Cogne, che spesso si stancava davanti al suo arcolaio, comprese la lezione: si accorse anche lei di avere autant de diablotins habiles et lestes que de doigts . Da quel momento la sua casa si riempì di fiori e di merletti, e tutte le donne di Cogne adornarono i loro costumi con quei pizzi che ancora oggi caratterizzano l’abito tradizionale del paese. Così, secondo una leggenda, nacque la tradizione dei pizzi a Cogne... L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa.

Il gigantesco albero di Courmayeur Nell’estate del 1832 il naturalista francese Sabin Berthelot (1794-1880), attraversando le vallate del Monte Bianco, s’imbatté in un abete rosso ( Abies excelsa ) tra Dolonne (Courmayeur) e Pré-Saint-Didier. I valligiani lo chiamavano Écurie des chamois ; in alcune carte erudite ricorre anche come Le sapin du Bequé . Misurato au-dessus du collet de la racine , presentava 7 metri e 62 centimetri di circonferenza; confrontando gli accrescimenti di abeti più giovani delle foreste vicine, Berthelot stimò addirittura un’età attorno ai 1200 anni. (1) Le sue osservazioni passarono presto sulla carta stampata e circolarono a lungo nelle pubblicazioni di settore, portando la voce dell’albero nel circuito colto europeo. Tempo dopo, nell’agosto 1849, Filippo Parlatore transitò in Valle d’Aosta. Nel Viaggio (2) confessò con rammarico di non aver chiesto alla guida di condurlo fin lì, ma fissò su pagina nome, fama e toponimo, rimandando alle misure e all’età già date da Berthelot. L’anno seguente, 1850, la Feuille d’annonces d’Aoste , nei suoi Faits curieux , descrisse lo stesso abete monumentale à la base des pentes méridionales du Mont-Blanc , tra Dolonne e Pré-Saint-Didier, sur la montagne de Régné , ribadendo le osservazioni di Berthelot e l’eccezionale longevità, malgré sa magnifique végétation et sa verdoyante vieillesse . (3) Nei decenni successivi libri, almanacchi e riviste di settore ripeterono quasi meccanicamente le note del 1832; poi tacciono sull’esemplare. In una schedatura moderna risalente al 1994 compare, in località Les Golettes (1.340 m, a monte di Dolonne), un abete rosso colonnare chiamato Lo Sapeun de Corbetta (altro modo per dire Bequé, «diavolo»): altezza 28 m, circonferenza 3,36 m, diametro 1,07 m, età stimata oltre 250 anni. La chioma forma una volta di circa 12 m di diametro che, oltre a servire come sicuro riparo ad animali e persone, veniva adoperato come provvisorio fienile nel corso delle passate fienagioni (si racconta che poteva contenere 20 “balloni” di fieno) . (4) Benché nomi e area coincidano, i dati non combaciano. È possibile che l’albero osservato nel 1832 sia scomparso nella seconda metà dell’Ottocento e che la sua fama sia durata ancora per qualche decennio per copiatura di repertorio; l’esemplare attuale è un altro. Si tratta di una pianta che, all’epoca della visita di Berthelot, aveva già un’ottantina d’anni. Nulla di sorprendente, se consideriamo quanto ricordava nel 1850 la Feuille d’annonces d’Aoste : a peu de distance de ce sapin, se trouve dans la forêt de Ferré, près du col de ce nom, au vallon de l’Allée-Blanche, un mélèse qui a cinq mètres 45 centimètres de circonférence au-dessus du collet de la racine, et qui ne doit pas avoir moins de huit cents ans . Nient’altro. Purtroppo. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) S. Berthelot, Sur la longévité et l’accroissement des arbres , dicembre 1832, p. 17. (2) F. Parlatore, Viaggio alla catena del Monte Bianco e al Gran San Bernardo eseguito nell’agosto del 1849 , p. 83. (3) Edizione del 30 settembre 1850. (4) C. Letey (a cura di), Le Piante Monumentali della Valle d’Aosta , 2001, p. 28.

Dove si trova il Mont-Au? Avete mai sentito parlare del Mont-Au? È un nome curioso, quasi dimenticato, che si incontra in una cronaca giornalistica valdostana del 1° ottobre 1875. Un giornale raccontava l’impresa dell’ingegnere Ernesto Santelli e del celebre alpinista torinese professor Martino Baretti, membri delle sezioni del Club Alpino Italiano di Aosta e di Torino. Con loro c’erano tre minatori di Champdepraz: Jean Borio, caporale della miniera, Jean Gaydo e Joconde Dhérin. Insieme avevano raggiunto la vetta della pointe vierge du Mont-Au, vallée de Champdepraz . (1) Il nome Mont-Au è curioso, e compare poco nelle cronache alpine. (2) Forse perché la montagna, di altitudine moderata, non offriva rien de remarquable , e i suoi colli vicini ne sont connus que des chasseurs . (3) Ma dietro quel toponimo si nasconde una storia: probabilmente è la contrazione di Monte Acuto , una definizione che calza perfettamente alla forma appuntita di quella cuspide di serpentino che domina i valloni vicini, (4) proprio in prossimità della miniera di magnetite situata nei pressi del Lac-Gelé. (5) Il giornale del 1875 sottolineava le difficoltà dell’ascesa: Les ascensionnistes ont dû surmonter bien de sérieuses difficultés pour parvenir à la sommité . Una volta giunti in vetta, il panorama si aprì grandioso davanti ai loro occhi. Allora i pionieri piantarono una bandiera e costruirono tre hommes de pierre , (6) gli ometti di pietra che ancora oggi accompagnano i camminatori sui sentieri d’alta quota. E proprio da quel momento la cima entrò nelle guide turistiche: On en fait l’ascension en 7 h. de Champ-de-Praz et en 8 h. de Chambave . (7) Oggi quella vetta non porta più il nome di Mont-Au . È conosciuta come Mont-Avic , 3.006 metri, lungo il confine tra Chambave e Champdepraz. Una montagna che ha dato il nome a un parco naturale regionale, istituito nel 1989. Area che si estende su quasi 5.750 ettari tra la Valle di Champorcher e il vallone di Champdepraz. Più di ottant’anni dopo quella prima ascensione, nel 1957, alcuni giovani di Champdepraz salirono sulla cima, portando con loro una piccola statua della Madonna, dono della sezione CAI di Ivrea. La collocarono lassù, a protezione degli alpinisti. Così, da un toponimo poco conosciuto, il Mont-Au , siamo arrivati al Mont-Avic che conosciamo oggi: una montagna che racconta insieme l’avventura degli uomini, la bellezza della natura. Immagine di copertina: Il Mont Avic. (1) L’Echo du Val d’Aoste , 1° ottobre 1875. (2) Le Mont-Blanc , 7 marzo 1924. (3) Feuille d’Aoste , 17 maggio 1871. (4) G. Berutto - L. Fornelli, Emilius, Rosa dei Banchi, Parco del Mont Avic , collana Guide dei monti d’Italia, CAI - TCI, 2005. (5) Aoste et sa Vallée. Guides Illustrés Reynaud , p. 24. (6) Feuille d’Aoste, 6 ottobre 1875. (7) Aoste et sa Vallée. Guides Illustrés Reynaud , p. 24.

Una donna nella neve Il 6 gennaio 1930, il settimanale australiano The Recorder (Port Pirie, South Australia), riprendendo un articolo del Daily Chronicle di Londra, pubblicava un titolo che oggi colpisce per la sua semplicità drammatica: Woman’s ordeal – Spends Night in Snow (“Il calvario di una donna – Trascorre la notte nella neve”). Il testo raccontava la storia di Proserpina Debaz, una sarta valdostana, e di sua figlia di otto anni. Il marito era emigrato in Francia, come molti in quegli anni. Lei voleva raggiungerlo passando dalla Svizzera. Ma alla sua richiesta di passaporto, le autorità fasciste risposero con un secco diniego. Così Proserpina prese una decisione radicale: attraversare clandestinamente il confine. Con la bambina al seguito, si unì a un gruppo di quattordici persone. Tentavano il passaggio al Colle del Teodulo, nei pressi del Cervino. Era inverno pieno. Le condizioni meteorologiche proibitive erano una strategia: con la tormenta, le pattuglie – forse – sarebbero state meno attente. Ma due miliziani fascisti, appostati nei pressi del colle, scorsero il gruppo. E aprirono il fuoco. Proserpina cadde svenuta nella neve. Un uomo fu colpito. La bambina restò accanto alla madre, nel buio e nel gelo. Solo all’alba, i militi trovarono le due vive, ma sfinite. Le soccorsero. E poi le arrestarono. Le portarono - scrive il giornale - alla “stazione fascista più vicina” ( the Fascist police station ). E lì la cronaca si interrompe. Non sappiamo se la donna riuscì mai a raggiungere il marito, o se la bambina serbò memoria di quella notte. Non sappiamo nemmeno se i giornali locali vennero a conoscenza della vicenda, o se, più probabilmente, la ignorarono per volontà del Regime e per effetto della censura. Sappiamo solo che la loro storia, ignorata in patria, fu ripresa dalla stampa inglese e poi da quella australiana. Molto lontano dalla Valle d’Aosta. Dove non se ne scrisse. Dove le cronache informarono solo che la neve, in quei giorni, era alta un metro. (1) L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) Le Mont-Blanc , 27 dicembre 1929.

Quando un intero villaggio valdostano finì in tribunale Le montagne che separano la valle di Cogne dalla Plaine di Aosta non sono soltanto confini naturali: per secoli sono state pascoli condivisi, terre di scambio ma anche di contrasti. È il caso dell’alpeggio di La Pierre (2.081 m), nei documenti chiamato La Pera , a monte di Ozein (Aymavilles), lungo il confine con la valle di Cogne. Nel medioevo i pastori di Chésallet (Sarre), legati ai nobili de Casaleto , salivano fin lassù e sfruttavano i pascoli, tanto da aver chiamato “Chésallet” quelli oltre il crinale, nella valle di Cogne. (1) Con il raffreddamento climatico del XIII secolo si stabilirono più in basso, colonizzando la zona di Cogne dove fondarono il villaggio di Épinel. Ma non smisero, mai di tornare in quota per il pascolo e il transito. Non sorprende, quindi, che nel corso del tempo e delle necessità siano nate tensioni tra le comunità vicine per lo sfruttamento degli alti pascoli. Nel 1898 la questione approdò addirittura in Pretura ad Aosta: su richiesta di alcuni abitanti di Aymavilles furono convocati tous les chefs de famille d’Épinel . L’udienza si tenne il 16 agosto per chiarire l’uso corretto dell’alpeggio. Il Pretore di Aosta stabilì che i pascoli de La Pera potevano essere utilizzati dagli abitanti di Épinel, ma solo entro i limiti dei confini comunali fissati nel 1873, dans la localité dite Tavaillon au moyen du placement de plusieurs limites très visibles et apparentes . Gli épinolens furono inoltre condannati a pagare danni e spese processuali, con il divieto di manomettere i confini segnati. (2) Oggi la situazione è ben diversa: le mandrie, molto ridotte, trovano erba sufficiente in altri pascoli della zona e nessuno di Épinel ha più motivo di recarsi a La Pera. Resta la memoria di una disputa che ricorda quanto, un tempo, ogni metro di prato fosse vitale per la sopravvivenza delle comunità alpine, e di un clima che periodicamente mutava. Condizioni che oggi hanno reso poco appetibile l’area di Tavaillon, un tempo conosciuta come Chésallet, che non offre più i prati appetibili, né le coltivazioni di secoli fa. Immagine di copertina: le zone alte di Epinel; sullo sfondo Cogne e il Prato di Sant'Orso. (1) A. M. Patrone, Liber reddituum Capituli Auguste , pp. 267-268. (2) Le Mont-Blanc , 8 luglio 1898.