La "nazione valdostana" a Bologna

Mauro Caniggia Nicolotti • 7 settembre 2020
La “nazione valdostana” a Bologna

L’università di Bologna, fondata intorno al 1088, è il più antico ateneo del mondo occidentale. Fu così che essa attirò fin dall’inizio molti studenti provenienti da ogni dove, i quali poterono godere della protezione imperiale. Causa le tante iscrizioni, fin dagli inizi del Duecento lo Studium bolognese decise di suddividere gli studenti in due corporazioni di scolares: i cives ed i forenses; cioè i bolognesi e tutti coloro che provenivano da fuori zona. Ognuna delle due fazioni non solo poteva eleggere un rettore e un proprio consiglio, ma si suddivideva ulteriormente anche in sottogruppi, ossia in nazioni, e ciò in base al luogo di origine degli allievi.
Un’idea certamente valida, quella della natio, che permetteva alle persone appartenenti a medesime aree geografiche, linguistiche e culturali di prestarsi reciproco aiuto. Nei documenti appaiono, infatti, i germanici (Theutonicorum natio), gli inglesi, i toscani, i lombardi, i romani (de Urbe), i campani, ecc.; fin dal 1195 tra gli stranieri oltralpini sorse, addirittura, la confratria scholarium ultramontanorum.
Ogni studente, dunque, aveva l’obbligo di aderire ad una nazione specifica, principalmente in considerazione del suo luogo di origine e non di residenza, oppure al suo gruppo linguistico. Per quanto riguardava i valdostani, inizialmente essi venivano affiliati alla Borgogna, delegazione a cui erano associati anche tutti coloro che provenivano dalle aree della Savoia, del Ginevrino, di Sion e di Losanna. Per quanto nel 1432 la Savoia fosse già indicata come “nazione”, essa comprendeva Chiablese, Ducato di Aosta e le terre sabaude non confederate ad altra nazione.
Per quanto concerne le riunioni, fin dal XII secolo i “forestieri” si incontravano presso la chiesa di San Procolo; invece i bolognesi in quella di San Domenico (basilica che, dalla fine del XIII secolo, fu poi utilizzata per le riunioni dei primi). (1)

Un tempo funzionava così...

(1) Informazioni tratte da S. Stelling-Michaud, L’université de Bologne et la pénétration des droits romain et canonique en Suisse aux XIIIe et XIVe siècles, pp. 33-40; pubblicate in Thora. Storia di un antico villaggio scomparso, M. Caniggia, M. Limonet. L. Poggianti.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 2 giugno 2025
Prossima fermata! Un viaggio a puntate nella città di Aosta che potrebbe essere Questa rubrica nasce come esercizio di immaginazione urbana. Le idee che seguono non tengono conto — per scelta, ovviamente — di costi, vincoli tecnici o tempi amministrativi. Non perché questi non siano importanti, al contrario, ma perché vorrei partire da ciò che per me è desiderabile, prima ancora che realizzabile. Si tratta solo di spunti, interi o parziali, che provano a suggerire una direzione diversa per la città attuale, una possibilità, un nuovo modo di guardare Aosta. In un tempo in cui è facile arrendersi al “non si può”, qui proviamo a dire: “e se si potesse?” Perché anche Aosta, piccola e bellissima, ha diritto a una visione. E il futuro — a volte — comincia anche da una semplice idea. Puntata 2 – Un mercato che respira Piazza Cavalieri di Vittorio Veneto, davanti alle Halles , è oggi uno spazio che si contrae e si espande a seconda dei giorni. Due volte a settimana si anima con il mercato cittadino: bancarelle, voci, furgoni, vita. Per il resto del tempo, diventa un parcheggio informe, invaso dalle auto. Eppure siamo a pochi passi dal cuore storico di Aosta: tra le stazioni ferroviaria e dei pullman, il mercato coperto e l’ingresso naturale al borgo di Sant’Orso. Uno snodo fondamentale, oggi sottoutilizzato e confuso. L’idea è quella di ripensare completamente l’area, senza più compromessi: – via le auto in superficie, tenendo conto del progetto di parcheggio sotterraneo già ipotizzato ( cfr. Puntata 1 – Un porto per Aosta ) – abbattimento (o, al massimo, riadattamento) dell’attuale presidio fisso, per fare spazio a una nuova struttura leggera e integrata, ispirata ai mercati europei contemporanei Una grande copertura colorata, luminosa, possibilmente ondulata, capace di ospitare: – una metà “fissa”, con botteghe sempre aperte, piccoli bistrot, rivendite, spazi di comunità, e anche ospitalità per altri mercati, come quelli periodici che si tengono in piazza Chanoux – una metà “flessibile”, modulare, accessibile ai furgoni e camioncini due volte a settimana, in modo ordinato, organizzato, sicuro Uno spazio che non muore nei giorni feriali, ma si trasforma: un mercato, certo, ma anche una piazza accogliente, artistica, un salotto urbano. In qualche modo, anch’esso un luogo d’incontro. Oltre il mercato Un progetto del genere potrebbe: – rafforzare le Halles e ridargli centralità – creare una nuova connessione tra centro e semicentro – aprire spazi per attività commerciali e artigianali – valorizzare i prodotti locali – riportare vita in una città che sta assistendo alla chiusura di tante, troppe attività – restituire al commercio ambulante dignità, servizi, ordine – rendere il mercato non solo più funzionale, ma anche bello, vivo, riconoscibile Spesso i turisti — in particolare francofoni — arrivano ad Aosta alla ricerca del “ célèbre marché d’Aoste ”, affascinati da racconti, fotografie, articoli... Forse confondono il mercato cittadino con quello natalizio. Organizzano viaggi di gruppo, si aspettano un’esperienza viva, colorata, strutturata — e talvolta rimangono delusi nel trovarsi davanti un mercato come tanti, disperso su un parcheggio senza anima. Per l’Aosta che verrà È solo un’idea, certo. Ma se vogliamo che Aosta sia più viva, più ordinata, più accogliente, dobbiamo osare immaginare una città che non respira solo qualche mezza mattinata, ma ogni giorno, in ogni stagione. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 30 maggio 2025
Prossima fermata! Un viaggio a puntate nella città di Aosta che potrebbe essere Questa rubrica nasce come esercizio di immaginazione urbana. Le idee che seguono non tengono conto — per scelta, ovviamente — di costi, vincoli tecnici o tempi amministrativi. Non perché questi non siano importanti, al contrario, ma perché vorrei partire da ciò che per me è desiderabile , prima ancora che realizzabile. Si tratta solo di spunti, interi o parziali, che provano a suggerire una direzione diversa per la città attuale, una possibilità, un nuovo modo di guardare Aosta. In un tempo in cui è facile arrendersi al “non si può”, qui proviamo a dire: “e se si potesse?” Perché anche Aosta, piccola e bellissima, ha diritto a una visione. E il futuro — a volte — comincia anche da una semplice idea. Puntata 1 – Il “porto" di Aosta Ogni anno, migliaia di persone raggiungono Aosta per scoprirne il patrimonio storico, culturale e paesaggistico. Eppure, la città - così com’è oggi - fatica ad accoglierle con ordine, cura e coerenza. I pullman turistici a volte si fermano alla meglio. Sono stati attrezzati dei punti al parcheggio di piazza Mazzini e della Consolata, ma per quanto apparentemente vicino quest’ultimo, resta abbastanza distante per molti gruppi, specie di anziani, spesso in fila sotto il sole. Le comitive si radunano in spazi improvvisati. I servizi sono distribuiti in modo frammentario e totalmente insufficienti alla massa di persone che si riversano in città. Il primo impatto con Aosta, per molti, è confuso, scomodo, disorganico. Non certo un bel biglietto da visita. Nasce da qui l’idea di un PORTO : Punto di Orientamento e Ritrovo Turistico Organizzato . Un luogo pensato per accogliere con dignità chi arriva in città: gruppi, scolaresche, famiglie, visitatori di passaggio. Un punto d’ingresso funzionale, bello, vivo, vivace. L’area tra piazza Mazzini e l’ex stadio Puchoz si presta perfettamente a questa funzione. Oggi poco valorizzata, potrebbe trasformarsi in uno snodo strategico per il turismo e, soprattutto, di ritrovo per la cittadinanza. Un progetto possibile Il progetto potrebbe prevedere: un parcheggio sotterraneo, capace di accogliere diverse centinaia di auto e decine di autobus turistici; in superficie, un grande polmone verde, un parco urbano attrezzato con: zone verdi per soste e picnic, aree sportive leggere (il tennis già c’è; si può immaginare corsa, gioco libero…), piccoli chioschi e ristori, un ufficio per guide e accoglienza turistica, servizi igienici pubblici, spazi estemporanei (anche coperti) per classi in visita e attività culturali, piccoli anfiteatri verdi, punti di ritrovo per comitive in partenza o in arrivo, concerti, eventi musicali,... Un nodo strategico Questa nuova area sarebbe naturalmente collegata alla stazione ferroviaria e degli autobus, vicina all’area mercatale, e capace di ridare vita a via Torino — oggi spesso trascurata — e alle direttrici che fanno perno su di essa, il borgo di Sant'Orso in primis. Per l’Aosta che verrà È solo un’idea, certo. Ma credo valga la pena immaginare luoghi possibili , capaci di cambiare il volto di un’Aosta che non è più quella ottocentesca, né industriale, né post-industriale. Questo potrebbe essere un angolo dell’Aosta di domani . L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 12 maggio 2025
Un Cervino... poco italiano Nel marzo del 1939, il regime fascista inaugurava a Breuil-Cervinia la funivia più alta del mondo, che collegava Breuil al Plateau Rosà, a 3.500 metri di altitudine; nel 1936 il collegamento si fermava a Plan Maison (2.561 m). Per commemorare l’evento, furono anche preparate delle spille ricordo, con una medaglietta che riportava la dicitura: 4 marzo XVII - Umberto di Savoia - Inaugurazione della “più alta funivia del mondo” Breuil-Plateau Rosà metri 3500 . Tuttavia, in una curiosa ironia, la spilla raffigurava il Cervino non dal lato italiano, ma da quello svizzero di Zermatt. In un curioso controsenso, durante il regime fascista, così attento al nazionalismo e alla celebrazione dell’italianità, fu scelto paradossalmente di rappresentare la Gran Becca dalla prospettiva elvetica, anziché da quella italiana, per celebrare l’inaugurazione della funivia. Un dettaglio che non sfugge e che oggi ci fa un po’ sorridere, ricordandoci che, a volte, la storia sa essere ironica. Di chi fu la scelta? La spilletta manca del punzone-marchio del produttore. Si tratta di un piccolo aneddoto che, ancora una volta, mette in evidenza come, purtroppo, la silhoutte più riconosciuta al mondo sia quella svizzera piuttosto che italiana. Il ritardo con cui il versante valdostano fu scoperto dai turisti rispetto a quello vallesano dimostra quanto una prospettiva possa fare la differenza. Esempi di errori più recenti? Un francobollo realizzato nel 2008 raffigura il Cervino, ma l’immagine presenta un errore: la montagna è rappresentata dalla caratteristica prospettiva di Zermatt (Svizzera) anziché da Breuil-Cervinia (Valle d'Aosta, Italia)...
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 5 maggio 2025
Introduzione Le leggende, lo sanno tutti, non hanno un tempo definito. Nascono parallele a quello reale. Questa, che vi state accingendo a leggere, non arriva neppure da un tempo lontano, no. È stata inventata di sana pianta qualche settimana fa… ma fa già finta di essere antica. A volte basta un “non so che”, un dettaglio che, con un tocco di penna, si trasforma in una nuova storia. Le leggende nascono, vivono e respirano anche nei nostri giorni, pronte a sorprendere e a trasportarci in mondi inaspettati. La finestra di Aost a che ingannò il diavolo Un tempo, si racconta, il portone dell’attuale ex-Prevostura di Aosta era spesso soggetto a strani eventi. Voci bisbigliate, ombre che si affacciavano alla soglia, e soprattutto un vento gelido che soffiava all’improvviso, come se volesse entrare con prepotenza. Alcuni dicevano che fosse solo il freddo della Dora Baltea, che risaliva dai greti irregolari del fiume; altri, più devoti, mormoravano il nome che nessuno voleva pronunciare. Il prevosto, uomo colto e prudente, sapeva bene che certi spiriti amano entrare dove tutto è perfetto, squadrato, ordinato. “Il Maligno non sopporta l’asimmetria”, diceva spesso, “perché lui stesso è lo specchio rotto dell’ordine divino”. E come recita un antico detto: “il diavolo si nasconde nei dettagli”. Fu così che, un giorno, ordinò che sopra il grande portone non fosse posta la solita finestra rettangolare — come volevano certe regole architettoniche — bensì una finestra ovale: senza spigoli, né angoli netti, né linee dritte. Gli venne anche un’idea singolare: non concludere la base dell’ovale, ma spezzarla, facendola appoggiare quadrata sull’architrave del portone. “Che follia!” dissero in molti. Ma da quel giorno le strane presenze cessarono, e il vento smise di ululare contro la facciata, forzando gli interstizi per entrare. Da allora, la finestra ovale sorveglia ancora l’ingresso, custode silenziosa di ciò che non ha forma. Di ciò che impauriva. Uno dei tanti anelli che ci àncorano al cielo, tenendoci aggrappati al Bene, a Dio.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 14 aprile 2025
Il brodo delle undici Traduzione e rielaborazione narrativa a partire da un testo del poeta valdostano Alcide Bochet (1802-1859), pubblicata sul giornale Feuille d’annonces d’Aoste , 15 febbraio 1844. La zona oggi nota come Les Fourches era, un tempo, luogo di esecuzioni pubbliche. L'autore, in premessa, si esprimeva più o meno così: " In uno dei vostri ultimi numeri, avete domandato cosa significhi le bouillon d’onze heures . Vi do la spiegazione sotto forma di leggenda in versi, a proposito di un’esecuzione capitale alle forche patibolari, in un’epoca molto antica, ma di cui le persone più anziane si ricordano ancora". Il brodo delle undici In un tempo traballante tra il XVIII e il XIX secolo, le undici di un certo sabato furono un’ora che i cittadini di Aosta non dimenticarono presto. Era il momento in cui due condannati venivano condotti fuori dalle celle, tra le preghiere sussurrate e lo scalpiccio degli stivali sul selciato. La destinazione era Les Fourches, poco fuori la città di Aosta, nella zona precollinare che ancora oggi porta quel nome. Lì, da tempo immemore, sorgevano le forche patibolari, e anche quando il legno fu rimosso, l’eco della corda rimase nell’aria. Quel giorno, però, qualcosa cambiò. Un medico — giovane e ostinato — si fece largo tra i presenti. Con passo fermo e occhio acuto, chiese una sospensione dell’esecuzione. «Fatemi esaminare i condannati. Potrei salvarli… o almeno dare loro una cura prima della fine.» I boia risero. I giudici tacquero. Ma lo lasciarono passare. Tastò il polso dei due uomini, guardò le labbra, poi si accigliò. «Sono freddi. Ma non di morte, bensì di febbre. Nessuna sanguisuga, nessuna tisana. Non li guarisce l’acqua di Courmayeur, né quella di Saint-Vincent. Non serve cataplasma, né salasso. Serve solo una cosa…» Sollevò il cappello, come per dichiarare un responso oracolare: “Presto, un b rodo”, disse. Un brodo d’onze heures! Onore alla tua scienza! Il tuo brodo li rianima. Ha potuto guarirli, per dare loro la conoscenza prima della loro dipartita. Ecco! Caro dottore, piangono, piangono poiché il tuo rimedio è vano: c’est le bouillon d’onze heures ... Nota storica L’espressione “ bouillon d’onze heures ” era diffusa in Francia almeno dal XVIII secolo e indicava, nel linguaggio popolare, l’ultimo pasto simbolico prima della morte. Secondo alcune fonti, deriverebbe dalla consuetudine dei Fratelli della Carità di somministrare, tra le 22 e le 23, un brodo caldo ai malati più gravi durante le veglie notturne. In certi casi, quel brodo veniva riservato a chi non avrebbe superato la notte, o, secondo interpretazioni più oscure, poteva contenere sostanze tossiche, o rappresentare, per i più fragili, un mezzo inconsapevole e fatale. Nel Dictionnaire universel français et latin di Trévoux (1771), si legge: P rendre un bouillon de onze heures : mourir . (1) La leggenda aostana del 1844 riprende questo tema, e lo trasforma in una narrazione ironica e malinconica, dove il brodo non salva, ma dona l’ultima, effimera conoscenza... (1) P. Bourrinet, C. Guyotjeannin, “Bouillon d’onze heures” , in Revue d’Histoire de la Pharmacie , 2005, n° 346, pp. 295–296.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 10 aprile 2025
Essere guida alpina in Valle d’Aosta: che fatica, nel 1855! Nel 1855, dodici uomini di Courmayeur si rivolsero al Consiglio provinciale di Aosta per ottenere, per dieci anni, la concessione esclusiva di fare da guide alpine ai viaggiatori desiderosi di salire al Monte Bianco da Courmayeur, lungo la via da loro scoperta nell’estate di quell’anno. Un evento destinato ad accrescere il flusso turistico nella zona, considerando che dal versante valdostano la vetta non era ancora stata raggiunta. (1) La richiesta fu discussa e accolta dal Consiglio aostano, poi trasmessa a quello Divisionale, (2) che la esaminò il 6 dicembre. Qualche consigliere, però, dichiarò che il Consiglio di Divisione doveva occuparsi degli interessi generali e non dei privilegi da concedere ai singoli; anzi, che tutti i privilegi andassero aboliti. Un giornale valdostano sottolineò come, nel caso in questione, si confondessero quei cosiddetti privilèges con qualcosa di negativo, di immeritato. In realtà, quella richiesta non era altro che il riconoscimento di una professionalità, paragonabile a un brevetto d’invenzione. (3) “Ora - annotava il giornale - non vediamo perché questi audaci e intrepidi esploratori della montagna, che, dopo ripetuti tentativi durati diversi anni, durante i quali tante volte hanno messo in gioco la loro vita, dopo sacrifici di tempo e denaro, e che hanno finalmente raggiunto il loro obiettivo scoprendo un passaggio che facilita e rende meno pericolosa la salita al Monte Bianco, ne pourraient pas s’assurer les profits qu’ils ont droit de retirer de leurs persévérantes recherches, et obtenir un privilège de guides, comme un industriel ou un mécanicien obtient un brevet d’invention, et un chercheur de minière, un droit d’exploitation? ”. La richiesta di Courmayeur fu rigettata, e il Consiglio approvò una risoluzione con cui si chiedeva al Governo di predisporre un preciso regolamento per le guide alpine. (4) Malgrado quelle difficoltà, è bene sapere che le guide di Courmayeur costituirono la Prima Società delle Guide costituitasi in Italia e seconda al mondo e che tale sodalizio è stata una delle prime strutture a promuovere e far conoscere la montagna ed in particolare l’alpinismo. Infatti, nel 1850, i precursori di un mestiere così nobile, si riunirono in società con lo scopo di concretizzare, mediante una struttura fissa e prestigiosa, un mestiere che era diventato il perno del turismo montano . (5) Una delle tante eccellenze e professionalità valdostane... che, come spesso accade, furono riconosciute solo dopo essere state ostacolate. Perché in fondo, quello che gli uomini di Courmayeur chiedevano non era un privilegio, ma il semplice diritto di esercitare con dignità un mestiere conquistato con fatica, rischio e conoscenza del territorio. A volte, pare che il vero privilegio sia riuscire a far valere la propria esperienza, senza doverla difendere da chi non la comprende. (1) A far data dal 1784 Jacques Bamat, assieme alla guida di Pré-Saint-Didier Jean-Laurent Jordaney, fece alcuni tentativi ricognitivi dalla zona di Chamonix, suo paese natale. Balmat fu il primo, insieme al concittadino Michel-Gabriel Paccard, a raggiungere la vetta l’8 agosto 1786. (2) In quegli anni la Valle d’Aosta formava una provincia piemontese chiamata Aosta. Le province di Aosta e di Ivrea costituivano insieme la Divisione d’Ivrea. (3) Feuille d’Aoste , 13 dicembre 1855. (4) Il 1° maggio 1852 il Senato aveva già approvato un regolamento per le guide di Chamonix. L’Indépendant , 10 maggio 1852. (5) http://www.guidecourmayeur.com/storia.php
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 7 aprile 2025
L’abito talare... sulle spalle Tra le varie storie, i cosiddetti “si dice”, legate alla memoria dell’ abbé Amé Gorret (1836-1907), ce n’è una, comprovata anche da alcune fotografie, secondo cui gli piacesse spesso indossare vestiti borghesi. L’abito talare, forse anche considerata la sua stazza, probabilmente non gli era sempre congeniale. Ma ecco che un bel giorno viene scoperto ad Aosta, in giubba e calzoni... dal vescovo in persona. Senza scomporsi, dinanzi al viso stupefatto e interrogativo del suo capo: “Chiedo perdono”, disse Gorret, “ma io non manco alla mia parola. Ecco, io “porto” la veste talare”. E ciò dicendo, gliela mostrava piegata e poggiata sulle robuste spalle a mo’ soprabito . (1) Effettivamente aveva promesso di “portare” la veste come impostogli dalla Curia... Era un po’ il suo modo spregiudicato di ribellarsi alle convenzioni che cercava di rispettare, ma che spesso limitavano troppo il suo spirito libero, al quale riteneva di dover essere indulgente su molte cose. Aneddoto pubblicato in: M. Caniggia Nicolotti, Sacerdoti saggi, sagaci e spiritosi. Preti valdostani di un tempo (2024) Foto tratta da: E. Reynaud, Aosta et sa Vallée , p. 56. (1) L. Vaccari, L’abate Amato Gorret , in Bollettino del Club Alpino Italiano , Vol. XXXIX, n. 72, 1908, p. 5.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 31 marzo 2025
La straordinaria invenzione di una funivia medievale valdostana Un’importante scoperta d’archivio potrebbe riscrivere la storia dell’ingegneria alpina: un antico manoscritto, ritrovato negli archivi della Biblioteca Claustrale di Aosta, testimonierebbe che la prima idea di una funivia risale al XIV secolo e non all’epoca moderna. L’inventore? Uno sconosciuto parroco valdostano, il visionario abbé Aimon de Silvenoire . Chi era l’ abbé Aimon? Nato intorno al 1371 nel piccolo villaggio di La-Rochère (oggi abbandonato, situato lungo la displuviale posta al confine tra Saint-Vincent e Arnad), Aimon entrò giovanissimo nell’ordine benedettino e poi si stabilì nella Chiesa parrocchiale di Sant’Orso di Emarèse, dove si distinse per le sue conoscenze in architettura e meccanica. Profondamente affascinato dalle sfide dell’ambiente alpino, si pose un obiettivo ambizioso: trovare un modo per superare i valichi di montagna senza dover camminare per giorni. Nell’estate del 1410 , Aimon elaborò un sistema di trasporto aereo che chiamò “ Senterius aërostaticus ” (sentiero aerostatico), descritto in un codice miniato recentemente ritrovato: “ et par grandis rotes et cordes de canapa, tirate par de besties de somas et par lo ventus, nos podremos elevar cosas et hommines in cima delli montis, ki volant quasi versum lo cielum ”. Il progetto prevedeva una serie di piattaforme sospese, sorrette da funi di canapa e movimentate da un ingegnoso sistema di carrucole e contrappesi. Gli appunti descrivono anche un rudimentale freno a legno e un sistema di stabilizzazione con vele in pelle di capra. Un disegno schematico mostra persino un carrello appeso a una fune, anticipando di secoli il principio delle moderne funivie. Gli studiosi stanno ora esaminando se l’abbé Aimon avesse avuto contatti con Leonardo da Vinci , il quale, secondo alcune fonti, avrebbe citato nei suoi taccuini un certo Eremīta Vallis Augustæ (Eremita Valdostano) come ispiratore di alcuni suoi studi sulle macchine da sollevamento. Perché la sua invenzione fu dimenticata? La storia narra che il vescovo di Aosta, Ego Absentius (1410-1411) impressionato dal progetto ma timoroso delle sue implicazioni, abbia dichiarato il “ Senterius aërostaticus ” un’opera contro Dio, vietandone la costruzione e facendo bruciare i disegni originali. Tuttavia, una copia del manoscritto sarebbe stata salvata e conservata segretamente da alcuni monaci dissidenti, fino al suo ritrovamento il 1’ aprile 2025. E oggi? L’interesse per la scoperta ha però superato i confini valdostani: negli USA alcuni gruppi di ricerca stanno studiando il modello medievale per un futuristico progetto di funivia che unirebbe tra loro il Canale di Panama, gli Stati Uniti, il Canada e la Groenlandia . Le autorità stanno invece valutando se riabilitare post mortem l’ abbé Aimon, in quanto il suo sistema di trasporto alpino non offenderebbe più l’Altissimo; al massimo - e per i più scettici e increduli - forse oggi qualcuno lo vedrebbe come un pesce d’aprile.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 27 marzo 2025
La statua che si muoveva ad Aosta Lungo la navata meridionale della Cattedrale di Aosta, in alto, c’è una statua. Si tratta di un altorilievo, in gesso e legno policromo risalente alla fine del Medioevo. È priva di mani, ma non di sguardo. Ritrae il beato Bonifacio di Valperga (seconda metà del XII secolo-1243), vescovo mite e sapiente, che nel XIII secolo guidò con dolcezza e tenacia la Chiesa valdostana. Oggi in pochi vi si soffermano. Anche perché il manufatto si trova ad una certa altezza da terra. Ma un tempo, quella statua… si muoveva. Non come nelle storie d’ombra. No. Il beato si muoveva per nostalgia. Ogni notte, quando le navate dormivano e il respiro deIle cose si faceva sottile, si racconta che la statua si staccasse dal suo posto. Non per fuggire. Ma per ritrovare. Passava davanti all’altare maggiore, si fermava là dove sorgeva l’antico ambone, indugiava vicino alla cripta, come un uomo che torna a visitare la propria casa, stanza per stanza. Al mattino, chi conosceva la statua a memoria diceva di notare leggeri spostamenti. Un piede appena più avanti. La grande veste chiara che lo avvolgeva, increspata in pieghe mutevoli. Il volto inclinato in un’altra direzione. E qualche volta, una scia di polvere sottile, minuscoli calcinacci, come se la statua nel muoversi, si fosse scontrata contro i secoli. All’inizio, si taceva. Poi le voci si fecero più insistenti. C’era chi si spaventava, chi parlava di spirito irrequieto. E così si decise di trovare un compromesso. Si rimossero le mani della statua, con delicatezza. Non come punizione, ma come accordo: il beato sarebbe rimasto tra le sue mura amate, ma fermo, non trovando modo di appigliarsi per scendere e poi per risalire al suo posto. Pare che egli accettò, senza dolore. Perché sapeva che anche l’immobilità può custodire presenza. E per mitigare la sua nostalgia, fu concesso un dono ulteriore: nella nuova facciata della Cattedrale, eretta più tardi, fu dipinta la sua immagine, appena fuori dal portone, sulla sinistra per chi entra, affinché potesse vedere il mondo passare, il tempo scorrere, la vita continuare. Là dove si può ammirare ancora oggi. Così Bonifacio si fece presenza silenziosa, dentro e fuori. Oggi, nessuno più lo vede muoversi. Ma in certe sere, quando l’ultima messa svuota la Cattedrale e il chiostro sussurra, qualcuno giura di avvertire un profumo sottile - come d’incenso e neve. E se ci si ferma davanti a lui, in silenzio, si ha l’impressione che la sua testa si inclini appena, come a dire: “Sì, ogni tanto torno qui. E veglio. Veglio sulla Cattedrale”. Mauro Caniggia Nicolotti, 20 25
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 24 marzo 2025
Il mistero del bambino di Villeneuve Il 17 aprile 1892, il periodico svizzero La Sentinelle riportava la seguente notizia: “Ieri, verso le tre del mattino, un impiegato della stazione di Losanna, che ha voluto restare anonimo, aveva accompagnato in un bar un grazioso bambino ( un joli petit gamin ) per offrirgli un bicchiere di vino e una brioche. Il piccolo indossava un cappotto di velluto grigio, tipico degli operai italiani. All’inizio non osava parlare: la sua timidezza e forse anche la difficoltà di esprimersi gli permisero appena di dire che veniva da Villeneuve. Stavamo per telegrafare alle autorità di quella località quando il bambino estrasse un biglietto ferroviario di terza classe, valido per una corsa da Martigny a Parigi, accompagnato da un indirizzo e da un estratto di nascita del Comune di Villeneuve, Valle d’Aosta. È quindi probabile che l’infortuné voyageur abbia attraversato il Gran San Bernardo per giungere fino alla capitale del Canton Vaud. Il petit italien si rifiutava di bere e mangiare; a ogni tentativo di porgli qualche domanda, rispondeva solo con una nuova effusione di lacrime. L’indirizzo che portava con sé lasciava facilmente supporre che il piccolo Victor, questo il suo nome, fosse stato oublié volontairement ”… Di lui non si conoscono altre notizie. Ma, al di là di tutto, come si fa ad offrire a un bambino un bicchiere di vino…? Altri tempi, mi si dirà...
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