“S’è addormitoooo”; “s’è svejato!!”
Mauro Caniggia Nicolotti • 15 ottobre 2021
“S’è addormitoooo”; “s’è svejato!!”
Ad un certo punto del film Il marchese del Grillo
- personaggio interpretato da Alberto Sordi - Ricciotto (Giorgio Gobbi), il braccio destro del nobile, ai servitori intenti a lavorare nel cortile del palazzo, urla: S’è addormitoooo.
Il marchese si era, infatti, addormentato e nessuno doveva disturbarlo. Dunque, tutti fermi.
Più che scontato, qualche ora dopo, il grido di S’è svejato!!: cosicché tutto ritornava nell’ordine, e soprattutto nei rumori, della vita quotidiana.
Una divertente scena cinematografica che in Valle d’Aosta, invece, sarebbe stata per qualcuno un comune fatto di vita reale, anzi una viva tradizione.
A raccogliere la stravaganza che segue fu il celebre giornalista e uomo politico francese Taxile Delord (1815-1877). Per l’appunto, nel 1854 egli raccontò di una scena simile a quella citata nel film di cui sopra pubblicandola sul giornale parigino Le Charivari,(1)
il primo quotidiano illustrato satirico al mondo (1832-1937).
Sulla prima pagina di quel foglio, infatti, egli firmò proprio un caustico articolo contro i valdostani.
La fotografia da lui scattata della situazione sociale in quella Valle d’Aosta di metà del secolo è a dir poco impietosa.
Gli autoctoni, molto conservatori, non solo avrebbero rimpianto i tempi dell’ancien régime piémontais, ma sembravano continuare a vivere come nel passato.
A tal proposito, un viaggiatore - dont la véracité ne saurait être mise en doute
- raccontava di aver visto, ai piedi di un castello, una ventina di persone armate di pertiche battere l’acqua di uno stagno situato davanti al principale corpo del maniero.
Alla domanda del turista che chiedeva il perché di quell’azione - la quale, oltretutto, faceva aumentare nei dintorni il puzzo dell’acqua ferma - questi risposero: “per far tacere le rane che impediscono al proprietario di questo castello di gustare la dolcezza del sonno”.
Sarebbe esistito, dunque, ancora il regime feudale in Valle d’Aosta? - si chiedeva quell’improvvisato corrispondente.
No, ovvio: quei tempi erano finiti.
Ma lo scrivente non ne era affatto convinto, a tal punto da dichiarare qu’il nétait pas rare de voir un nouveau marié se présenter chez un ancien seigneur le jour même de ses noces et lui présenter la mariée en le suppliant d’user de ses droits.
Descrizioni indubbiamente false che si aggiungevano ad altre considerazioni altrettanto ingenerose; tutte nell’ordine di reggere il ritmo ad un articolo satirico confezionato ad arte contro le proteste dei valdostani verificatesi tra il 1852 e il 1854.
Infatti, una serie di riforme volute da Cavour intese a laicizzare maggiormente lo Stato avevano infiammato molti abitanti della Vallée.
Il giornale francese Le Charivari, fortemente anticlericale, lancia in resta, rese quella protesta valdostana - che conosciamo come la Terza Révolution des soques
- come una cosa ridicola, anacronistica, insomma un fatto da operetta.
Qualche anno dopo, in un altro articolo francese - (qui l'articolo) - i valdostani furono descritti come dei “mostri”.
In Francia, evidentemente, non avevano per niente una corretta percezione di ciò che accadeva all’ombra dell’altra metà del Bianco. Forse perché a levigare le terre del versante opposto del colosso alpino era il cattolicesimo; fede a cui la Valle fu sempre legata.
(1) Edizione del 6 gennaio 1854.
- Immagine di copertina: il castello di Ussel (disegno di E Perotti), L'Emporio Pittoresco, 15-21 settembre 1867, p. 581.

La fuga miracolosa degli ostaggi di Aosta Nel giugno del 1691 la Valle d’Aosta fu travolta dall’invasione delle truppe francesi guidate dal marchese de la Hoguette. Per alcune settimane seimila soldati dilagarono nella regione, lasciando dietro di sé saccheggi, devastazioni, incendi, ponti distrutti, luoghi sacri profanati e persino il tentativo di strappare i tesori alla cattedrale di Aosta. Ma, ingannati dalla presenza del giglio scolpito su alcuni arredi e dalla tradizione che voleva il Duomo restaurato da un antico re dei Franchi, Gontrano, si dissuasero dall’oltraggio, pur non rinunciando al resto. Subito giunse la loro richiesta: una contribution de guerre di 300.000 livres . Dopo trattative, la cifra scese a 200.000, ma rimaneva impossibile. Si consegnarono allora sacchi di grano, bestiame, vino, denaro, preziosi. Intanto i soldati occupavano case e conventi. Nonostante i sacrifici, la somma non fu raccolta. Per garanzia i francesi pretesero sei ostaggi: il canonico Jean-Georges De Tiller e Joseph Tissioret per il clero; il barone François-Gaspard d’Avise e François-Jérôme Brunel per la nobiltà; il consigliere Jean-Joseph Lyboz e l’avvocato Jean-François Ferrod per la borghesia. Condotti a Chambéry, furono rinchiusi nelle prigioni del castello. Là, trattati con durezza e ormai certi che il riscatto non sarebbe più stato pagato, riuscirono a guadagnarsi la fiducia di un giovane soldato francese, Nicolas Champlot de Montargis. Con promesse e forse qualche lacrima, ottennero il suo aiuto. Una notte, il soldato li fece calare dall’alto dell’edificio con una corda. Sperduti nell’oscurità, senza guide, vagarono con Champlot tra campi e villaggi, travestiti da carbonai, (1) implorando la protezione della Vierge e facendo voto. Fu un lungo viaggio di ventiquattro giorni: dalla prigionia di Chambéry circumnavigarono le falde del Monte Bianco, raggiunsero il Colle del Gran San Bernardo e infine rientrarono ad Aosta il 23 dicembre 1691. I fuggitivi, insieme al loro salvatore, furono accolti da un’esplosione di gioia popolare. In solenne processione si recarono alla cappella di Notre-Dame-de-Pitié, oltre il Pont-Suaz (Charvensod), per offrire un ex-voto raffigurante la loro liberazione. Quel quadro, rifatto nel 1837, si trova ancora oggi nella cappella. Nicolas Champlot ricevette un vitalizio e si stabilì in Valle d’Aosta, dove fu accolto come un concittadino. Morì nel 1744. Suo figlio divenne parroco a Sainte-Marie-Magdeleine di Gressan e si spense nel 1812: (2) segno che da quell’avventura nacque un legame destinato a durare ben oltre la fuga miracolosa. Fu un’avventura intensa. Sospesa tra la crudeltà della guerra e la forza della devozione, tra il coraggio degli uomini e il segno della protezione divina. Un'importante pagina di storia valdostana. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. ( 1) L’Indépendant , 22 aprile 1875. (2) J.-A. Duc, Histoire de l’Eglise d’Aoste , VII, pp. 426-437.

Il “Sindaco di legno” in Valle d’Aosta Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, la stampa valdostana si accese attorno a una figura singolare e beffarda: il syndic de bois , il “sindaco di legno”. L’espressione, nata come satira politica, metteva in luce le lacerazioni delle comunità locali, dove le elezioni comunali si trasformavano spesso in scontri tra famiglie, villaggi e soprattutto tra clericali e liberali. Già nel 1893 Le Valdôtain , giornale cattolico moderato, scherzava scrivendo che in un certo Comune sarebbe stato utile eleggere un “sindaco di legno”, più imparziale e meno incline alle “gelosie di partito”. Non una persona scelta dalla cosiddetta opinion publique . Quest’ultima era invece fatta da interessi privati: prendeva un uomo, lo vestiva a nuovo, lo lucidava, lo trasformava di tutto punto e lo conduceva ad Aosta pour lui montrer où se trouve la Sous-Préfecture . (1) Un sindaco impersonale, insomma, che non offendesse nessuno: “di paglia o di legno, basta che non lo si incendi subito”… Molti anni dopo, la polemica venne ripresa con toni ancora più accesi dal giornale anticlericale Le Mont-Blanc . Nel dicembre 1910 un gruppo che si firmava “del partito liberale” propose di affidare gli affari comunali a un sindaco fittizio, immobile come una statua, che non perdesse tempo, come sovente accade, a frequentare le osterie con il suo seguito. “Almeno” – scrivevano con sarcasmo – “un sindaco di legno farebbe risparmiare, salvo la spesa per lo scultore, ovviamente”. E, in un crescendo dissacrante, suggerivano perfino di collocarlo in chiesa, accanto al grande crocifisso, in un’incredibile “collaborazione” simbolica che – dicevano – avrebbe attratto ancora più bigots . (2) La provocazione non rimase senza risposta. Qualche giorno dopo, una lettera firmata da un gruppo di donne cattoliche (forse autentica, forse costruita dal giornale stesso) difese il crocifisso come emblema sacro della Redenzione, bollando la trovata del sindaco di legno come un’offesa alla dignità. (3) La disputa si accese ulteriormente quando un giovane consigliere comunale valdostano scrisse al giornale: i lettori – ironizzava – ne avevano ormai les boîtes pleines di sindaci di legno. Quanti ce n’erano già nella Valle? E di chi la colpa? Forse di quegli elettori pronti a vendersi per un bicchiere di vino? Il giovane rivendicava con orgoglio che, almeno nel suo Comune, il sindaco era stato scelto bene: lontano dal profumo dell’incenso e ancor più lontano dall’essere “piazzato accanto al crocifisso”. Perché – concludeva con una punta di moralismo – le Christ était pur, innocent, ennemi de l’ivrognerie . (4) E oggi? Oggi le cose sono cambiate e, al di là della satira politica e dissacrante appena ricordata, sappiamo che i nostri sindaci valdostani, pur tra le mille difficoltà della società contemporanea, operano per il bene delle loro comunità. Al massimo, i “sindaci di legno” potrebbero diventare curiosi soggetti d’artigianato da inventare e mostrare alla Fiera di Sant’Orso… ma, in fondo, meglio di no. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) Edizione del 24 febbraio 1893. (2) Edizione del 23 dicembre 1910. (3) Le Mont-Blanc , 6 gennaio 1911. (4) Edizione del 3 marzo 1911.

I draghi sui tetti di Aosta Le riparazioni fatte per la distribuzione dell’acqua nei diversi quartieri della città, eseguite alle soglie dell’inverno 1860, furono accolte con favore dai cittadini di Aosta. L’acqua sarebbe stata distribuita da fontane a getto collocate a distanze convenienti, e quando il freddo avrebbe cominciato a farsi sentire, chiudendo le chiuse – e con accorgimenti che evitassero alle acque di tracimare e ristagnare – si sarebbero finalmente liberate le strade da quell’ammasso d’acqua che troppo spesso le trasformava in lastre di ghiaccio. Tuttavia, restava ancora – assicurava un giornale dell’epoca (1) – un miglioramento da compiere: la soppressione, il più presto possibile, delle gargolle a testa di drago ( gargouilles à tête de dragon ) che riversavano a cascata tutta l’acqua dei tetti. Pericolose, potevano provocare incidenti: quelque chute ou au moins quelque glissade (qualche caduta o almeno qualche scivolata). Si sarebbe potuto rimediare a questo inconveniente, suggeriva ancora il cronista, facendo stabilire delle condotte dalle case, soprattutto quelle che costeggiavano le vie principali, convogliando l’acqua dalle grondaie dei tetti in tubi che, scendendo lungo i muri, sarebbero sboccati in piccoli condotti sotterranei, uniti poi alle fogne. Nous savons bien qu’une semblable réparation ne peut se faire en un seul coup; mais nous savons aussi que la dépense supportée par les propriétaires des maisons ne sera jamais supérieure à celle qu’ils paient aujourd’hui . (2) Un’ultima osservazione riguardava la piazza Carlo Alberto, l’attuale piazza Chanoux: qui, durante le grandi piene, il canale che correva lungo il lato meridionale della piazza si gonfiava fino a diventare une rivière infranchissable , un fiume inattraversabile. Il rischio era che la corrente travolgesse i ponticelli che permettevano di superarlo, lasciando i cittadini senza passaggi sicuri. La proposta era semplice: disporre lastre di pietra molto semplici ma solide, sulle quali passare senza pericolo tutte le volte che l’acqua traboccava. Oggi quasi tutto scorre nascosto sotto l’asfalto, ma basta osservare certe vie, aprire le cronache dell’epoca o guardare una vecchia cartolina per ritrovare quel gorgoglio che un tempo dava voce ad Aosta. Immagine di copertina: Piazza Chanoux e una ponteille (a destra in basso); cartolina d'epoca. (1) L’Indépendant , 4 dicembre 1860. (2) “Sappiamo bene che una simile riparazione non può compiersi in un solo colpo; ma sappiamo anche che la spesa sostenuta dai proprietari delle case non sarà mai superiore a quella che essi pagano oggi”.

Aosta, la Roma delle Alpi Passeggiare per Aosta è come sfogliare un manuale di archeologia senza sfogliare nulla: basta alzare lo sguardo e ci si imbatte in un arco onorario, una porta monumentale, le mura, il teatro, il criptoportico. Pietre romane che non raccontano solo storie lontane, ma che hanno dato alla città un soprannome che ancora oggi risuona familiare: la Roma delle Alpi . Ma quando nasce davvero questo appellativo? E perché? Frugando tra le pagine di giornali ottocenteschi, la più antica definizione che sono riuscito a scovare risale al 1850. (1) Ma attenzione: non si parlava ancora di Roma delle Alpi , bensì di Rome du Piémont . E il Piemonte, in quell’epoca, non era soltanto l’idea geografica che abbiamo oggi: era anche il titolo politico del cuore del Regno di Sardegna, lo Stato sabaudo che teneva insieme il Piemonte, la Savoia, la Liguria e, naturalmente, la Valle d’Aosta. L’Italia unita non esisteva ancora, e nemmeno il concetto di "Alpi" come marchio identitario europeo. Dire 'Roma del Piemonte' significava, in fondo, inscrivere l’antica Augusta Praetoria Salassorum nel quadro sabaudo, come capitale simbolica di un’eredità gloriosa. Qualcosa cambiò tra Ottocento e Novecento. Non è solo il tempo del giovane stato unitario italiano, ma è anche il tempo delle prime guide turistiche illustrate, dei viaggiatori che si spostano per cultura e piacere, non solo per necessità. È lì che comincia a circolare con più forza l’immagine di Aosta come Roma delle Alpi : un modo nuovo, più ampio, di situarla non in un contesto politico, ma geografico, quasi naturale. La prima traccia certa che ho trovato risale al 1901. (2) Forse ce ne sono di precedenti, ma da quel momento l’espressione prende piede, fino a diventare quasi un marchio. Poi arriva il fascismo, e il nuovo epiteto trova terreno fertilissimo. Il regime esaltava la romanità come mito fondante della nazione, dell’impero: monumenti restaurati, architettura e retorica imperiale, celebrazioni. Aosta, con la sua densità di vestigia, diventa il laboratorio perfetto... anche per combattere il suo spirito autonomista e la sua francofonia. La Roma delle Alpi non è più solo un modo di dire, ma un titolo che entra nei discorsi ufficiali, nei manifesti, nelle guide, nei discorsi celebrativi. Oggi quell’appellativo è diventato un titolo culturale a pieno diritto. Dopo essere stato strumentalizzato in epoca fascista come emblema di romanità imposta, ha ritrovato il senso che aveva avuto nell’Ottocento: non più bandiera politica, ma marchio turistico e identitario, capace — con la forza delle sue pietre — di richiamare viaggiatori e curiosi da ogni parte del mondo. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) La Ville d’Aoste a été nommée la Rome du Piémont, à cause de ses antiquités : L. Pléoz, Le Garde National soit Almanach du Duché d’Aoste pour l’an 1850 , p. 68. (2) L’Union Valdôtaine , 29 novembre 1901.

13/09/1945 – 13/09/2025 Chi mi legge e conosce sa quanto profonda sia la mia passione per la storia e per le tradizioni valdostane. Oggi ricordiamo l’ Union Valdôtaine , che compie ottant’anni dalla sua fondazione. Per farlo, ho scelto di lasciarmi ispirare da un giornale dell’epoca, L’Union Valdôtaine del 15 dicembre 1945. “La Valle d’Aosta, lungo i secoli, ha sempre custodito la nostalgia delle proprie radici. Un sentimento che riaffiorava con forza ogni volta che pressioni esterne tentavano di soffocare la sua identità. Già dall’Ottocento il nodo più sensibile era la lingua francese, difesa con tenacia da generazioni di valdostani contro le spinte uniformatrici dello Stato. A quella battaglia se ne affiancarono altre: la richiesta di decentralizzare i servizi, mantenere le istituzioni locali, proteggere tutto ciò che rappresentava la specificità culturale e civile della nostra Valle. Le promesse di Roma restarono spesso lettera morta, e la fiducia nelle parole del governo venne meno. Poi arrivò il fascismo. Anche allora furono promessi rispetto e considerazione, ma la realtà fu una persecuzione dura, umiliante, che cercò di spegnere la nostra voce. Eppure il giunco valdostano ( le roseau valdôtain ) si piegò, senza mai spezzarsi. Così, quando la libertà tornò a far capolino, un gruppo clandestino fedele alle tradizioni uscì dall’ombra e devint légion .” In questo clima, segnato da lotte e speranze, il 13 settembre 1945 nacque l’ Union Valdôtaine , riconosciuta poco dopo dalle Autorità Alleate. Non più un movimento clandestino, ma un’associazione con il suo posto al sole, chiamata a essere al tempo stesso muro di difesa e forza di propulsione verso il futuro. Il suo appello era chiaro: unirsi per difendere tradizioni, diritti, cultura; lavorare per elevare la vita morale e sociale della comunità valdostana. Non un ritorno nostalgico, ma un passo deciso verso una ricostruzione che non poteva prescindere dall’identità. Collocata in quel contesto, la fondazione dell’ Union Valdôtaine rappresentò uno dei passaggi significativi della storia politica valdostana del secondo dopoguerra: da associazione culturale e identitaria a movimento politico, realtà che accompagna la vita pubblica della Valle d’Aosta fino a oggi. ---------- 13/09/1945 – 13/09/2025 Ceux qui me lisent et me connaissent savent combien ma passion pour l’histoire et les traditions valdôtaines est profonde. Aujourd’hui, nous nous souvenons de l’Union Valdôtaine, fondée il y a quatre-vingts ans. Pour le faire, j’ai choisi de m’inspirer d’un journal de l’époque, L’Union Valdôtaine du 15 décembre 1945. « La Vallée d’Aoste, au fil des siècles, a toujours gardé la nostalgie de ses racines. Un sentiment qui refaisait surface avec force chaque fois que des pressions extérieures tentaient d’étouffer son identité. Dès le XIXe siècle, la question la plus sensible fut la langue française, défendue avec ténacité par des générations de Valdôtains contre les poussées uniformisatrices de l’État. À ce combat vinrent s’ajouter d’autres : la demande de décentraliser les services, de maintenir les institutions locales, de protéger tout ce qui représentait la spécificité culturelle et civile de notre Vallée. Les promesses de Rome restèrent souvent lettre morte, et la confiance dans la parole du gouvernement s’en trouva ébranlée. Puis vint le fascisme. Là encore, on promit respect et considération, mais la réalité fut une persécution dure, humiliante, qui tenta d’éteindre notre voix. Pourtant, le roseau valdôtain plia, sans jamais se rompre. Ainsi, quand la liberté fit de nouveau son apparition, un groupe clandestin fidèle aux traditions sortit de l’ombre et devint légion. » Dans ce climat, marqué par les luttes et les espérances, naquit le 13 septembre 1945 l’Union Valdôtaine, reconnue peu après par les Autorités Alliées. Elle n’était plus un mouvement clandestin, mais une association ayant trouvé sa place au soleil, appelée à être à la fois un mur de défense et une force de propulsion vers l’avenir. Son appel était clair : s’unir pour défendre traditions, droits, culture ; travailler à l’élévation morale et sociale de la communauté valdôtaine. Non pas un retour nostalgique, mais un pas décidé vers une reconstruction qui ne pouvait pas se faire sans identité. Placée dans ce contexte, la fondation de l’Union Valdôtaine représente l’un des moments significatifs de l’histoire politique valdôtaine de l’après-guerre : d’association culturelle et identitaire, elle devint mouvement politique, une réalité qui accompagne la vie publique de la Vallée d’Aoste jusqu’à aujourd’hui.

Tutte le Aosta del mondo Provate a immaginare che il nome Aosta non appartenga solo alla nostra città alpina, con le sue mura romane e l’Arco di Augusto. Immaginate che quel nome abbia viaggiato lontano, si sia trasformato in Aoste, Aouste, Valdosta, lasciando tracce in borghi francesi, in sogni coloniali e persino sotto il sole della Georgia americana. È la storia sorprendente di un filo che parte da Roma e ancora oggi lega luoghi distanti. Tutto nasce dal latino Augusta , titolo imperiale che i Romani diedero a città nuove o rifondate in onore dell’imperatore. Così, oltre alla nostra Augusta Praetoria Salassorum , ritroviamo Aoste , nell’Isère, piccolo borgo francese che conserva tracce gallo-romane. Più a nord, nelle Ardenne, sorge Aouste , villaggio di campi e boschi con una chiesa medievale fortificata dedicata a Saint-Rémi. E ancora, nella Drôme, Aouste-sur-Sye , un alveare prealpino di case chiare dai tetti rosati dalle quali emerge un bel campanile. Ma la storia non si ferma qui. Nel 1940, durante la breve stagione coloniale italiana, fu annunciata persino un’“ Aosta d’Etiopia ”: un centro agricolo da fondare nell’Harrarino, dedicato al Duca d’Aosta viceré e alla nostra città. Ne parlarono i giornali, si ipotizzò persino un gonfalone da inviare dall’Italia, ma il progetto rimase lettera morta allo scoppio della guerra. E infine, come in un gioco di rimandi inattesi, attraversiamo l’Atlantico. Negli Stati Uniti, in Georgia, esiste Valdosta , città di oltre 50.000 abitanti. Il suo nome deriva da “Valle d’Aosta”, appellativo che un governatore diede alla sua piantagione nell’Ottocento. Lì, tra magnolie e clima subtropicale, sopravvive l’eco lontanissima della nostra Valle alpina. Ecco allora la piccola famiglia delle Aosta del mondo. Ognuna con il suo carattere, le sue storie e i suoi paesaggi. Sarebbe bello farle incontrare tutte, magari in un gemellaggio o una grande festa, sotto lo stesso nome antico che ancora oggi ci accomuna.

La leggenda che segue è ispirata a La Légende des dentelles de Cogne , scritta da Joséphine Duc-Teppex e pubblicata sul giornale Le Mont-Blanc il 17 agosto 1923. Il testo è stato da me reinterpretato e riscritto in italiano, mantenendone lo spirito popolare e narrativo. La leggenda delle dentelles di Cogne Un tempo, a Cogne, i lunghi inverni erano duri e monotoni. Le case, povere e buie, resistevano come potevano al freddo e alla neve. Nelle stalle, le famiglie si radunavano con vicini e amici, attorno al fuoco alimentato dalle pigne, per scaldarsi, parlare e raccontare storie. Fra tutti, il più atteso era Jérôme, che scendeva da Gimillan per raggiungere la casa del cugino Mathurin: passo sicuro, appuyé sur un gros bâton noueux, les souliers ferrés, le bonnet de laine enfoncé bien bas sur le front . Era il miglior narratore di montagna: conosceva non solo le storie dei vecchi, ma anche quelle raccontate nei libri, l’origine delle famiglie, persino i nomi delle pietre. Il était enfin la tradition du pays et sa science. Il en était de plus la sagess e ! Una sera d’inverno, le donne della stalla gli chiesero un racconto. J érôme sorrise e cominciò: «Questa storia non viene dai libri, ma dalla mia stessa nonna, Césarine. Un tempo ella era giovane e bella, ma povera e sola con suo padre, oppressa dai debiti. Un giorno, triste davanti alla porta, sospirò: “ Ah, se ci fossero ancora le fate buone, che aiutano chi soffre!” Ed ecco che apparve la mère Cunégonde, una fata alta e magra, con il capo incoronato di rododendri e un abete di cinque metri come bastone. “Ho visto la tua pena dalla cima del Gran Paradiso” le disse, “e vengo a consolarti” . Battendo tre volte a terra con la punta del suo bastone, fece comparire dieci minuscoli operai, spiritelli vivaci, non più alti di un fiammifero. Poi soffiò sulle mani di Césarine: i diavoletti entrarono nelle sue dita, trasformandole in strumenti di meraviglia. Infine, dalla punta del suo abete lasciò cadere un fiocco di ghiaccio purissimo del Gran Paradiso, così fine e trasparente da sembrare intagliato come i pizzi di Venezia. “Ecco il tuo dono” disse, “sta a te saperne trarre fortuna” . Poi si avviò verso il ghiacciaio della montagna. Da quel giorno, le mani di Césarine filavano e lavoravano pizzi così belli e delicati che presto si diffusero ovunque. Con il lavoro pagò i debiti, visse serena e non conobbe più la noia: i diavoletti, nascosti nelle sue dita, le tenevano compagnia mentre lei creava merletti e cantava». La bella Giovannina, una canavesana della Val Soana trasferita a Cogne, che spesso si stancava davanti al suo arcolaio, comprese la lezione: si accorse anche lei di avere autant de diablotins habiles et lestes que de doigts . Da quel momento la sua casa si riempì di fiori e di merletti, e tutte le donne di Cogne adornarono i loro costumi con quei pizzi che ancora oggi caratterizzano l’abito tradizionale del paese. Così, secondo una leggenda, nacque la tradizione dei pizzi a Cogne... L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa.

Il gigantesco albero di Courmayeur Nell’estate del 1832 il naturalista francese Sabin Berthelot (1794-1880), attraversando le vallate del Monte Bianco, s’imbatté in un abete rosso ( Abies excelsa ) tra Dolonne (Courmayeur) e Pré-Saint-Didier. I valligiani lo chiamavano Écurie des chamois ; in alcune carte erudite ricorre anche come Le sapin du Bequé . Misurato au-dessus du collet de la racine , presentava 7 metri e 62 centimetri di circonferenza; confrontando gli accrescimenti di abeti più giovani delle foreste vicine, Berthelot stimò addirittura un’età attorno ai 1200 anni. (1) Le sue osservazioni passarono presto sulla carta stampata e circolarono a lungo nelle pubblicazioni di settore, portando la voce dell’albero nel circuito colto europeo. Tempo dopo, nell’agosto 1849, Filippo Parlatore transitò in Valle d’Aosta. Nel Viaggio (2) confessò con rammarico di non aver chiesto alla guida di condurlo fin lì, ma fissò su pagina nome, fama e toponimo, rimandando alle misure e all’età già date da Berthelot. L’anno seguente, 1850, la Feuille d’annonces d’Aoste , nei suoi Faits curieux , descrisse lo stesso abete monumentale à la base des pentes méridionales du Mont-Blanc , tra Dolonne e Pré-Saint-Didier, sur la montagne de Régné , ribadendo le osservazioni di Berthelot e l’eccezionale longevità, malgré sa magnifique végétation et sa verdoyante vieillesse . (3) Nei decenni successivi libri, almanacchi e riviste di settore ripeterono quasi meccanicamente le note del 1832; poi tacciono sull’esemplare. In una schedatura moderna risalente al 1994 compare, in località Les Golettes (1.340 m, a monte di Dolonne), un abete rosso colonnare chiamato Lo Sapeun de Corbetta (altro modo per dire Bequé, «diavolo»): altezza 28 m, circonferenza 3,36 m, diametro 1,07 m, età stimata oltre 250 anni. La chioma forma una volta di circa 12 m di diametro che, oltre a servire come sicuro riparo ad animali e persone, veniva adoperato come provvisorio fienile nel corso delle passate fienagioni (si racconta che poteva contenere 20 “balloni” di fieno) . (4) Benché nomi e area coincidano, i dati non combaciano. È possibile che l’albero osservato nel 1832 sia scomparso nella seconda metà dell’Ottocento e che la sua fama sia durata ancora per qualche decennio per copiatura di repertorio; l’esemplare attuale è un altro. Si tratta di una pianta che, all’epoca della visita di Berthelot, aveva già un’ottantina d’anni. Nulla di sorprendente, se consideriamo quanto ricordava nel 1850 la Feuille d’annonces d’Aoste : a peu de distance de ce sapin, se trouve dans la forêt de Ferré, près du col de ce nom, au vallon de l’Allée-Blanche, un mélèse qui a cinq mètres 45 centimètres de circonférence au-dessus du collet de la racine, et qui ne doit pas avoir moins de huit cents ans . Nient’altro. Purtroppo. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) S. Berthelot, Sur la longévité et l’accroissement des arbres , dicembre 1832, p. 17. (2) F. Parlatore, Viaggio alla catena del Monte Bianco e al Gran San Bernardo eseguito nell’agosto del 1849 , p. 83. (3) Edizione del 30 settembre 1850. (4) C. Letey (a cura di), Le Piante Monumentali della Valle d’Aosta , 2001, p. 28.

Dove si trova il Mont-Au? Avete mai sentito parlare del Mont-Au? È un nome curioso, quasi dimenticato, che si incontra in una cronaca giornalistica valdostana del 1° ottobre 1875. Un giornale raccontava l’impresa dell’ingegnere Ernesto Santelli e del celebre alpinista torinese professor Martino Baretti, membri delle sezioni del Club Alpino Italiano di Aosta e di Torino. Con loro c’erano tre minatori di Champdepraz: Jean Borio, caporale della miniera, Jean Gaydo e Joconde Dhérin. Insieme avevano raggiunto la vetta della pointe vierge du Mont-Au, vallée de Champdepraz . (1) Il nome Mont-Au è curioso, e compare poco nelle cronache alpine. (2) Forse perché la montagna, di altitudine moderata, non offriva rien de remarquable , e i suoi colli vicini ne sont connus que des chasseurs . (3) Ma dietro quel toponimo si nasconde una storia: probabilmente è la contrazione di Monte Acuto , una definizione che calza perfettamente alla forma appuntita di quella cuspide di serpentino che domina i valloni vicini, (4) proprio in prossimità della miniera di magnetite situata nei pressi del Lac-Gelé. (5) Il giornale del 1875 sottolineava le difficoltà dell’ascesa: Les ascensionnistes ont dû surmonter bien de sérieuses difficultés pour parvenir à la sommité . Una volta giunti in vetta, il panorama si aprì grandioso davanti ai loro occhi. Allora i pionieri piantarono una bandiera e costruirono tre hommes de pierre , (6) gli ometti di pietra che ancora oggi accompagnano i camminatori sui sentieri d’alta quota. E proprio da quel momento la cima entrò nelle guide turistiche: On en fait l’ascension en 7 h. de Champ-de-Praz et en 8 h. de Chambave . (7) Oggi quella vetta non porta più il nome di Mont-Au . È conosciuta come Mont-Avic , 3.006 metri, lungo il confine tra Chambave e Champdepraz. Una montagna che ha dato il nome a un parco naturale regionale, istituito nel 1989. Area che si estende su quasi 5.750 ettari tra la Valle di Champorcher e il vallone di Champdepraz. Più di ottant’anni dopo quella prima ascensione, nel 1957, alcuni giovani di Champdepraz salirono sulla cima, portando con loro una piccola statua della Madonna, dono della sezione CAI di Ivrea. La collocarono lassù, a protezione degli alpinisti. Così, da un toponimo poco conosciuto, il Mont-Au , siamo arrivati al Mont-Avic che conosciamo oggi: una montagna che racconta insieme l’avventura degli uomini, la bellezza della natura. Immagine di copertina: Il Mont Avic. (1) L’Echo du Val d’Aoste , 1° ottobre 1875. (2) Le Mont-Blanc , 7 marzo 1924. (3) Feuille d’Aoste , 17 maggio 1871. (4) G. Berutto - L. Fornelli, Emilius, Rosa dei Banchi, Parco del Mont Avic , collana Guide dei monti d’Italia, CAI - TCI, 2005. (5) Aoste et sa Vallée. Guides Illustrés Reynaud , p. 24. (6) Feuille d’Aoste, 6 ottobre 1875. (7) Aoste et sa Vallée. Guides Illustrés Reynaud , p. 24.

Una donna nella neve Il 6 gennaio 1930, il settimanale australiano The Recorder (Port Pirie, South Australia), riprendendo un articolo del Daily Chronicle di Londra, pubblicava un titolo che oggi colpisce per la sua semplicità drammatica: Woman’s ordeal – Spends Night in Snow (“Il calvario di una donna – Trascorre la notte nella neve”). Il testo raccontava la storia di Proserpina Debaz, una sarta valdostana, e di sua figlia di otto anni. Il marito era emigrato in Francia, come molti in quegli anni. Lei voleva raggiungerlo passando dalla Svizzera. Ma alla sua richiesta di passaporto, le autorità fasciste risposero con un secco diniego. Così Proserpina prese una decisione radicale: attraversare clandestinamente il confine. Con la bambina al seguito, si unì a un gruppo di quattordici persone. Tentavano il passaggio al Colle del Teodulo, nei pressi del Cervino. Era inverno pieno. Le condizioni meteorologiche proibitive erano una strategia: con la tormenta, le pattuglie – forse – sarebbero state meno attente. Ma due miliziani fascisti, appostati nei pressi del colle, scorsero il gruppo. E aprirono il fuoco. Proserpina cadde svenuta nella neve. Un uomo fu colpito. La bambina restò accanto alla madre, nel buio e nel gelo. Solo all’alba, i militi trovarono le due vive, ma sfinite. Le soccorsero. E poi le arrestarono. Le portarono - scrive il giornale - alla “stazione fascista più vicina” ( the Fascist police station ). E lì la cronaca si interrompe. Non sappiamo se la donna riuscì mai a raggiungere il marito, o se la bambina serbò memoria di quella notte. Non sappiamo nemmeno se i giornali locali vennero a conoscenza della vicenda, o se, più probabilmente, la ignorarono per volontà del Regime e per effetto della censura. Sappiamo solo che la loro storia, ignorata in patria, fu ripresa dalla stampa inglese e poi da quella australiana. Molto lontano dalla Valle d’Aosta. Dove non se ne scrisse. Dove le cronache informarono solo che la neve, in quei giorni, era alta un metro. (1) L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) Le Mont-Blanc , 27 dicembre 1929.