“Un gran fango”...
Mauro Caniggia Nicolotti • 5 maggio 2022
“Un gran fango”...
De la boue!
Aoste bientôt va devenir la capitale de la boue. Il y en a dans la région du Plôt,(1)
le long du chemin de la circonvallation;(2)
Il y en a à ne plus s’en tirer les pieds, derrière les prisons,(3)
le long de l’avenue Père Laurent, du coté de la Gare.(4)
Nos édiles, les pieds au sec, font mine de ne pas s’en apercevoir, s’en remettant peut-être à M. le Vent chaud, notre Grand Voyer.(5)
Quelque part pourtant des demi-mesures ont été adoptées. Ainsi le long de l’avenue Père Laurent, sillonnée par le passage de tant de camions et de lourds attelages, du beau gravier a été déposé. Mais qu’attend on avant de le répandre? Faudra-t-il que les intéressés s’en mêlent eux-mêmes?
Il pezzo non risparmiava, dunque, nulla e nessuno fin dal titolo: “Fango!”
Le vie principali che circondavano l’intera città risultavano a quell’epoca sprofondare nella fanghiglia, condizioni che - secondo il giornalista - avrebbero fatto ironicamente meritare ad Aosta il titolo di “capitale del fango”.
La polemica non si fermava a quello e, quasi alla lettera, continuava così: “Cosa si dovrebbe fare per risolvere l’annoso problema? Forse sperare nell’azione naturale del vento caldo?”
Fortunatamente, la municipalità stava già provvedendo allo spargimento di ghiaia nelle zone più critiche...
Fu, però, solo a partire dagli anni Trenta che molte vie di Aosta cominciarono ad avere finalmente il loro pavage
oppure un completo rifacimento di quello già esistente.
Cesare Pavese (1908-1950) un giorno scrisse: Il mio paese sono quattro baracche e un gran fango, ma lo attraversa lo stradone provinciale dove giocavo da bambino. Siccome sono ambizioso, volevo girare per tutto il mondo e, giunto nei siti più lontani, voltarmi e dire in presenza di tutti: non avete mai sentito nominare quei quattro tetti? Ebbene, io vengo di là.(6)
Condivido quel pensiero riportandolo alla “mia” Aosta.
Ch’io mi trovi sotto altri cieli, guardi differenti orizzonti o scruti colori di altre terre, ho sempre ben presente una sensazione simile: Ebbene, io vengo di là.
Paradossalmente, però, la stessa emozione la provo comunque tutti i giorni, quando cioè normalmente vivo Aosta, infilato tra i miei “quattro tetti”...
(1) Attuale piazza della Repubblica. (2) S’intendono, grosso modo, le attuali vie Garibaldi, Carrel, Carducci e Partigiani. (3) Via Rey. (4) Piazza Manzetti. (5) In Francia, durante l’Ancien Régime, il “Gran Viario” era un alto ufficiale che aveva la responsabilità della rete viaria. (6) Da Racconti, vol. II, “La Langa”. Il paese natio dello scrittore è Santo Stefano Belbo (Cuneo).
Foto di copertina: Il palazzo (in epoca fascista era "del governo") di fronte alla Stazione ferroviaria di Aosta.

Prima di piazza Chanoux: un’immagine strana... Nel marzo del 1838, sulle pagine della rivista inglese The Architectural Magazine , comparve un’incisione dal titolo Cottage near La Cité, Val d’Aosta . Faceva parte del ciclo “ Poetry of Architecture ”, un titolo già di per sé programmatico, che lascia intuire come l’intento non fosse tanto descrivere, quanto evocare. La scena mostra un edificio singolare, con archi, colonne, logge, decorazioni di gusto romantico-mediterraneo; un insieme che, pur collocato in un paesaggio alpino, di valdostano sembra avere ben poco. Eppure — non so — a guardarla con attenzione, qualcosa in quell’immagine pare familiare. Forse sono quegli archi binati, forse i capitelli scolpiti, che ricordano da vicino i frammenti noti della chiesa e del convento di San Francesco, un tempo eretti proprio dove oggi si apre piazza Chanoux, con il Municipio e i suoi portici ordinati. Si trattava di un complesso medievale imponente, risalente al Trecento, poi demolito nei primi decenni dell’Ottocento. Il campanile fu abbattuto nel 1836 e i ruderi rimasero visibili ancora per qualche tempo — fino al 1839, quando fu posata la prima pietra del nuovo palazzo comunale. Dunque, se mettiamo insieme le date, l’incisione dovrebbe collocarsi proprio in quell’intervallo sospeso, quando diversi resti di San Francesco erano ancora presenti, ma non certamente già dimenticati. È possibile che l’autore inglese sia passato da Aosta in quegli anni, o che si sia basato su racconti di viaggio, su schizzi o memorie raccolte altrove. In ogni caso, la sua non è una veduta “vera”, bensì una sorta di trascrizione poetica, come egli stesso avrebbe detto: un’immagine filtrata attraverso il gusto e la fantasia di un’epoca che, dell’Italia, cercava più l’armonia ideale che la precisione topografica. L’espressione Cottage near La Cité lo rivela bene. I viaggiatori britannici dell’Ottocento amavano inserire ogni città italiana — anche la più alpina — dentro un racconto mediterraneo: un luogo di sole, di colonne bianche, di giardini. Così anche Aosta, che di mediterraneo ha solo il nome della luce in certi pomeriggi, venne trasformata nel sogno di un’Italia idealizzata, quasi uno stereotipo d’Oltre Manica. Dunque, poco di quanto appare in quell’incisione appartiene davvero all’architettura valdostana: un poco quelle colonne, parzialmente quei loggiati; affatto alcuni profili esagerati. Ma proprio in questa distanza tra realtà e invenzione sta, a ben vedere, il suo fascino. L’immagine inglese del 1838, pur così romanzata, sembra trattenere — quasi per sbaglio, o per intuizione — l’ultima eco visiva della chiesa di San Francesco, che per secoli aveva segnato la spiritualità e la forma stessa della città. Oggi di quella chiesa restano poche tracce: qualche capitello riutilizzato altrove, alcune pietre sparse e — sotto terra — il perimetro ancora leggibile, con un’alzata che in genere non supera il metro. L’immagine del 1838, dunque, è un piccolo specchio deformante, in cui la città, quasi senza riconoscersi, riflette un passato che non si vede più — ma che continua, silenziosamente, a respirare sotto i suoi passi.

Aosta e le due torri del lebbroso Forse non tutti sanno che ad Aosta esistono, per così dire, due “Torri del Lebbroso”. La prima è reale: la torre in cui visse dal 1773 al 1803 Pietro Bernardo Guasco, il ligure raccontato da Xavier de Maistre nel celebre Le Lépreux de la cité d’Aoste (1811). La seconda, invece, appartiene all’immaginazione teatrale: la Torre di Bramafan, scenario del melodramma francese Le Lépreux de la Vallée d’Aoste , rappresentato a Parigi nel 1822 e poi svanito quasi del tutto dalla memoria valdostana, ammesso che in qualche modo vi sia mai entrato. Eppure questo testo dimenticato, sorprendentemente, è punteggiato di eco locali. Il lebbroso del melodramma vive tra i resti del castello di Bramafan, circondato da superstizioni che sembrano uscite da un’antica tradizione e nutrendosi di silenzio e malinconia, osservato da lontano da contadini diffidenti. Nel dramma circola anche una credenza che un certo magister dice di aver trovato in un vieux livre : da quando un lebbroso è presente nella Valle, gli inverni sono più rigidi, le tempeste si susseguono, i raccolti peggiorano, le valanghe diventano più terribili e perfino i boschi appaiono infestati da briganti. È una superstizione, che nel testo si diffonde poi come mormorio di paese. Accanto a questa compare anche mère Simone , una strega locale che dispensa consigli alle ragazze: per trovare marito, suggerisce di raccogliere un fiore nel giardino del lebbroso. Ogni anno le solitaire de la tour de Bramafam appende un bouquet ai rami del salice piangente qui est en face de sa demeure , nel giorno del compleanno della donna amata: un gesto discreto, poetico, romantico. È proprio lei, la marchesa Aurélie, a ritrovarlo per caso: riconosce nell’uomo malato l’antico amore creduto morto. Lui la respinge per proteggerla, ma le chiede di incontrarlo a mezzanotte, alla cappella di Manfredonia. Intanto i contadini, accecati dalla paura, assaltano Bramafan e incendiano la torre; il lebbroso trova il suo cane, unico compagno, ucciso a tradimento. Poco dopo salva un viandante da una banda di briganti, ma l’ultimo gesto di coraggio gli costa la vita. Raggiunge la cappella, dove Aurélie lo attende: muore avvolto nel mantello come in un sudario, chiedendo soltanto di pregare per il lebbroso della Valle d’Aosta. Intorno, il silenzio delle torce e le ginocchia dei contadini che arrivano troppo tardi. Il melodramma, come anticipato, cita una cappella chiamata Manfredonia, posta nelle vicinanze di Bramafam, dove si compie il destino dei protagonisti. Il nome non è certo valdostano, ma rimanda con sorprendente coerenza all’antico oratorio di Saint-Roch, realmente esistito presso Bramafam: una cappellina vicina al castello aostano e demolita nel 1786. Sappiamo dalle cronache che quell’oratorio era diventato rifugio per malfattori e criminali, e nascondiglio per refurtive, tanto da spingere il vescovo Solar a ordinarne l’abbattimento. (1) È curioso, a questo proposito, notare come un passaggio del melodramma — l’eco della torre che ripete « Malheur à toi, lépreux! » — sembri sfiorare una tradizione tutta aostana: quella secondo cui il nome “Bramafam” deriverebbe dal “bramare la fame”, dal grido del popolino che, nel Medioevo, si assiepava sotto il granaio per invocare pane; o della moglie di uno degli Challand lasciata morire di fame tra le mura del castello. Suggestioni forse casuali, ma che mostrano come gli autori avessero colto, o intuito, qualcosa dell’aura antica che circondava quel luogo. Chi ha scritto quest’opera conosceva certamente il libro di De Maistre e, con ogni probabilità, aveva visitato Aosta o almeno ne aveva studiato la topografia, le vicende, la storia. Comunque sia, il melodramma in tre atti Le Lépreux de la Vallée d’Aoste è opera di Hyacinthe Decomberousse, Baudouin d’Aubigny e Jean-Toussaint Merle, e fu rappresentato per la prima volta a Parigi il 13 agosto 1822, al Théâtre de la Porte Saint-Martin. Un esordio di grande rilievo: musica di Alexandre, balletto di Blanche fils, protagonista la celebre Marie Dorval (1798-1849). (2) L’opera ebbe ampia fortuna e giunse anche in Italia grazie alla traduzione — e a qualche adattamento della vicenda, poiché per esempio non si cita più Bramafam ma la torre di San Silvestro — realizzata da Luigi Marchionni, venendo poi rappresentata in molte città: Milano (1828), Napoli (1831), Genova (1834) e altre. (3) Mi colpisce soltanto questo, oltre alla freschezza di una storia romantica di quei tempi: pur conoscendo le nostre fonti, non mi ero mai imbattuto in questo melodramma. Una piccola tessera rimasta nell’ombra, che oggi torna alla luce senza pretendere di cambiare nulla. Ma anche questo, a volte, basta per riscoprire un dettaglio dimenticato della nostra storia. Immagine di copertina: Il castello di Bramafam; cartolina viaggiata nel 1902. (1) https://www.caniggia.eu/loratorio-di-bramafam-e-la-cappella-del-plot (2) https://books.google.it/books?id=p-tKAAAAcAAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false (3) G. Enrico, Una storia dimenticata. Pietro Bernardo Guasco (1752-1803) (Seconda parte) in a Lecca , Pagine di storia, cultura e tradizioni alla scoperta della Valle Impero , anno VI, maggio 2018, p. 39 e note 14, 15 e 16.

Eugène Carrel, capo della polizia Nelle pieghe della storia valdostana di fine Ottocento si ritrova spesso un nome che, passo dopo passo, seppe conquistare onori ben oltre i confini delle sue montagne: Eugène Carrel di Valtournenche. La sua carriera nell’Arma dei Carabinieri si intrecciò con episodi che colpirono l’immaginazione popolare. Così nel maggio del 1888, quando era ancora giovane carabiniere in servizio ad Albano Laziale (Roma), la sorte volle che incrociasse sulle strade di casa un personaggio noto alle cronache: un certo Bich, latitante temuto e spavaldo, convinto che nessuno avrebbe mai potuto catturarlo. In licenza a Valtournenche, Carrel si trovava in compagnia del collega Pierre Berthod, anch’egli carabiniere in licenza, ma da Verona. Quando riconobbe Bich (“colpito da mandato di cattura del procuratore del Re di Torino”), Carrel non esitò: lo affrontò a mani nude, stringendolo con forza nonostante la violenta resistenza del malvivente. Fu l’intervento congiunto dei due militari a renderne possibile l’arresto, custodito poi nella caserma delle Guardie di Finanza fino all’arrivo dei carabinieri di Châtillon. Quell’azione, compiuta senza obbligo di servizio, valse loro encomi solenni e li consegnò all’ammirazione della comunità come esempio di dedizione e coraggio. Per la cronaca, il famigerato Bich non rimase a lungo lontano dai guai. I Carabinieri di Châtillon lo arrestarono nel 1897: era ricercato per aver malmenato e ferito il postino di Torgnon, Martin Vesan. Detto ciò, negli anni seguenti il nome di Carrel continuò ad avanzare nelle gerarchie. Nel 1895 è registrato come brigadiere dei Reali Carabinieri, segno di una carriera in crescita, costruita sulla disciplina e sull’impegno. Un salto di prestigio si ebbe nel 1902, quando da Roma giunse la notizia della sua promozione a maresciallo con incarico di sorveglianza e sicurezza al Quirinale, a fianco della famiglia reale. Per un valdostano di Valtournenche, nato tra le vette e i villaggi di montagna, trovarsi a servire la Casa Savoia nel cuore della capitale significava il riconoscimento del valore maturato in anni di servizio. In quello stesso periodo fu anche decorato par le Shah de Perse, lors de son passage à Rome per aver provveduto alla sicurezza personale del monarca asiatico. Quell’impegno gli valse infatti la medaglia d’oro cavalleresca dell’Ordine del Sol Levante. Il percorso di Carrel, tuttavia, non si fermò qui. Negli anni successivi lo ritroviamo in un contesto insolito ma prestigioso: la Repubblica di San Marino, incarico di grande responsabilità in una tradizione che spesso vedeva affidare la guida del Corpo a militari italiani di provata esperienza. Nel 1908 la stampa valdostana riferiva che l e commandant de la gendarmerie de San Marino est un valdôtain, M. le Chev. Eugène Carrel , segno che aveva ormai assunto un ruolo di vertice nella piccola repubblica. La sua carriera sammarinese fu lunga e costellata di riconoscimenti: nel 1910 ottenne una medaglia d’argento al merito per importanti servizi resi alla Repubblica e nel 1911 la la medaglia d’oro al merito per la lotta contro l’epidemia di colera; nel 1918 era ancora ricordato dalla stampa valdostana come lieutenant général commandant de la Gendarmerie de la République de Saint-Marin , poi nominato Chevalier de l’Ordre Équestre de Saint-Marin e Grand Officier per il suo zelo e la sua condotta esemplare. Altre fonti indicano che in quello Stato, dal 1906 al 1921, ricoprì l’incarico di Ispettore Politico con il grado di tenente, continuando a godere della fiducia delle autorità e dell’ammirazione dei suoi concittadini. Così la parabola di Eugène Carrel appare chiara. Una vita al servizio dell’ordine, percorsa con fermezza. Il profilo di un uomo che seppe portare il nome della Valle d’Aosta fino ai palazzi del Quirinale e alle mura della più antica repubblica d’Europa. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. Fonti: L’Union valdôtaine , 20 giugno 1902; L’Avenir , 20 giugno 1902; L e Val d’Aoste , 2 giugno 1911; Jacques Bonhomme , 7 febbraio 1908; Carabiniere , pubblicazione settimanale illustrata , 22 gennaio 1888, pp. 20-21.

Un monumento che fece brontolare Aosta All’inizio del 1903, l’idea di erigere ad Aosta, nei pressi della Tour du Pailleron, un monumento a re Umberto I – assassinato a Monza tre anni prima – sembrò vicina al compimento. L’annuncio fu dato dal giornale valdostano Le Mont Blanc , che invitava i valdostani a contribuire non solo con denaro, ma anche – organizzando una sorta di concorso pubblico – a proporre al Comitato organizzatore un’epigrafe adatta da incidere sul marmo. E la Valle, nonostante la miseria che la attanagliava, rispose con entusiasmo. Presto arrivarono le prime iscrizioni, solenni e un po’ teatrali. Eccone alcune: « À la mémoire du Roi Martyr Humbert I de Savoie. Le peuple valdôtain et le Club alpin italien. Reconnaissants et fidèles. 1903. » « Au fils de l’immortel Vittorio: Humbert, roi bon et loyal, victime d’un infâme assassin témoignage de dévoûment. La Vallée d’Aoste et la Section du Club Alpin, 1903. » « Dans nos montagnes tu trouvas le repos et l’amour. Humbert, roi loyal et magnanime, tu semas les largesses. Les Valdôtains t’aimeront et te pleureront toujours. 1903. » Queste furono alcune delle epigrafi proposte: non sappiamo se ne circolarono altre, ma bastano a restituire il tono di quell’omaggio, sospeso tra una millenaria devozione e la retorica. Poi però, come spesso accade, arrivò il rovescio della medaglia. Giugno 1903: la sottoscrizione aveva raccolto 10.405 lire e 30 centesimi. Una cifra importante, se si pensa alle povere tasche di molti contadini e operai che faticavano a sbarcare il lunario. Ed è proprio di fronte a quella somma che qualcuno – sempre dalle colonne de Le Mont-Blanc – alzò la voce chiedendo se non sarebbe stato meglio fondare un Institut pour les Convalescents pauvres , capace di dare cure e pane, invece di un monumento che ne sera utile à personne e il ne soulagera pas une douleur, ni ne calmera pas une souffrance . Un’opera pia, osservava il foglio, avrebbe reso maggior omaggio alla Casa Reale. (1) È, per così dire, il brusio del popolo, che non sa mai se chinare il capo al re o pensare al piatto di minestra da cercare di mettere a tavola. Così il monumento a Umberto I, prima ancora di essere eretto, diventava un piccolo specchio della nostra gente: da una parte lo slancio romantico, dall’altra il senso pratico che non perdona. E in mezzo a tutto questo, ciò che ci è rimasto è un busto del re, incavato in un piedistallo di marmo bianco di Carrara; in cima un’aquila in bronzo, ai lati del busto due bassorilievi allegorici. Il monumento, realizzato dallo scultore torinese Edoardo Rubino (1871-1954), fu poi inaugurato il 1° settembre 1903. E l’epigrafe? Dopo tante parole solenni, il marmo si accontentò di un laconico « A Humbert I – La Vallée d’Aoste ». Un po’ come la statua dedicata a suo padre Vittorio Emanuele II collocata nei giardini Lussi: au roi chasseur . Presenze importanti, quelli dei sovrani, ma celate nel verde urbano, non nel centro cittadino; un modo come un altro per marcare rispetto, sì, ma anche una forte autonomia della Valle d’Aosta... In copertina: Il monumento a Umberto I, piazza Manzetti . Aosta. (1) Le Mont-Blanc , 3 aprile, 10 aprile e 26 giugno 1903 .

L’imperatrice francese e la Valle d’Aosta Tutto cominciò nel 1866, quando i giornali piemontesi parlarono di un frate cappuccino che stava per costruire ad Aosta un grande ospizio per poveri e anziani. L’opera costava una fortuna e prevedeva persino una rendita per il suo mantenimento. Ma i fondi c’erano già. Come poteva un frate, padre Lorenzo, permetterselo? La Gazzetta di Cuneo insinuò che il denaro arrivasse da Parigi — più precisamente dalle mani dell’imperatrice Eugenia Bonaparte, desiderosa di fare “propaganda annessionista” in Valle d’Aosta. Altri, invece, parlarono di religiosi o di benefattori rimasti nell’ombra. La stampa valdostana reagì con fastidio. La Feuille d’Aoste ironizzò: “Con tanti soldi così potremo fondare un manicomio per tutti i giornalisti italiani che perdono la testa!” Ma dietro l’ironia rimaneva un sospetto: e se davvero l’imperatrice avesse messo mano al portafoglio per conquistare, con la carità, ciò che suo marito Napoleone III non aveva ottenuto con la diplomazia? In quegli anni, infatti, circolavano voci di accordi segreti tra Francia e Italia che avrebbero previsto la cessione della Valle d’Aosta in cambio del Veneto o di Roma… Quando fu posata la prima pietra dell’edificio, una scatola sigillata al suo interno conteneva un documento: l’opera era stata eretta “grazie alla pia e rara munificenza di una nobile famiglia di Francia, il cui nome sarà conosciuto solo in cielo”. Una donazione anonima, dunque — ma troppo precisa per non far pensare a qualcuno: forse proprio Eugenia, imperatrice consorte dei Francesi dal 1853 al 1870. Dopotutto, la sovrana era in quegli anni onnipresente: finanziava ospedali, pagava di tasca propria le legioni del Papa, inaugurava il Canale di Suez. Era cattolica, brillante, vanitosa: voleva che si parlasse di lei ovunque. E Aosta — piccola, montana, francofona e da sempre guardata con interesse da Parigi — sembrava il luogo perfetto per un gesto di charité politique . Che fosse davvero lei la misteriosa benefattrice? Nessuno lo provò mai. Ma forse non importa come sia andata per davvero, poiché la casa di riposo — l’attuale Refuge Père Laurent — fu costruita grazie a donazioni anonime, e ancora oggi è un vanto nell’assistenza agli anziani in Valle d’Aosta. Immagine di copertina: L'imperatrice Eugenia de Montijo. Fonte: Gustave Le Gray, Public domain, via Wikimedia Commons . Fonte: sintesi da M. Caniggia Nicolotti, L. Poggianti, La Valle d’Aosta in saldo. Trattative segrete tra Italia e Francia per scambiare la “Vallée” con Roma e le Venezie , pp. 104–119.

Mariette Gervasone, donna di ferro Aosta, 26 novembre 1875. Quel giorno la città si fermò. Le campane accompagnavano il corteo funebre di Maria Giovanna Colombino, vedova Gervasone, morta il giorno precedente, e le vie erano gremite come non si era mai visto. Un cronista annotava: Depuis longtemps, en effet, une bière n’avait été suivie chez nous par une foule aussi nombreuse et aussi recueillie . (1) Non era solo il lutto di una famiglia, ma quello di un’intera comunità. I poveri, per esempio, avevano perso una benefattrice generosa, la città una donna intelligente e buona, l’industria valdostana una protagonista della sua prosperità. Nos pauvres ont perdu en elle une bienfaitrice généreuse, notre ville une femme intelligente et bonne, notre industrie une personne qui contribuait puissamment à sa prospérité scriveva infatti la Feuille d’Aoste . (2) Nei giornali dell’epoca la si trova citata come Marie-Jeanne, talvolta più familiarmente come Mariette: ma era sempre lei, Maria Giovanna Colombino, vedova Gervasone, capace di guidare officine e operai in un mondo dominato dagli uomini. Fra Villeneuve e Aymavilles i suoi stabilimenti producevano oltre mille tonnellate di ghisa e quasi un migliaio di ferro l’anno grazie alla magnetite di Cogne, alimentando soprattutto la Torino industriale. Dietro questi volumi, ci sono cifre che parlano da sole. Ogni quintale di ferro era venduto a 42 lire, con ricavi complessivi nell’ordine delle centinaia di migliaia di lire annue. Ma i costi erano alti: il carbone, il minerale, i salari degli operai, i trasporti. L’equilibrio fra entrate e uscite era sottile, a volte rischioso, tanto che la stessa signora Gervasone chiedeva pubblicamente un aumento dei dazi doganali per proteggere la produzione locale dalla concorrenza straniera. (3) E non smise mai di occuparsene: ancora nel 1874, ormai vicina alla fine, attraverso il suo rappresentante Felice Paoletti acquistò oltre diecimila piante ad Aymavilles, segno di una volontà instancabile di guardare avanti. (4) Accanto alla forza dell’imprenditrice e alla sua inarrestabile operosità, emergeva - come anticipato anche la generosità della benefattrice: “i poveri di Aosta ricevevano settimanalmente pane e zuppa davanti alla porta della casa della signora Gervasone”. (5) Un gesto semplice e concreto, che spiegava la sua popolarità almeno quanto la produzione di ferro. Alla sua morte, l’eredità passò al figlio Guillaume, assistito dallo zio-avvocato Colombino, come riportavano i giornali. (6) Il funerale di Mariette, avvenuto il 26 novembre 1875, restò nella memoria come il saluto collettivo a una donna che seppe intrecciare industria e solidarietà, economia e comunità. In lei, la Valle d’Aosta aveva trovato una voce femminile forte e autorevole, capace di incidere tanto nel clangore del ferro quanto nel silenzio della carità. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) Feuille d’Aoste , 1° dicembre 1875. (2) Feuille d’Aoste , 1° dicembre 1875. (3) Feuille d’Aoste , 24 settembre 1873. (4) L’Echo du Val d’Aoste , 29 maggio 1874. (5) Le Mont-Blanc , 25 gennaio 1895. (6) Feuille d’Aoste , 8 dicembre 1875.

L’abbé Gorret, la “spia italiana” Nel gennaio del 1895 il giornale Le Mont-Blanc (1) pubblicava una lettera singolare arrivata da St-Martin de Clelles, piccolo villaggio francese situtato nei dintorni di Grenoble. Il mittente era un abbonato, che raccontava con calore il passaggio in quelle terre dell’ abbé Amé Gorret. Chi era? Un prete valdostano dalla tempra inconfondibile: Amé Gorret (1836-1907), l ’ ours de la montagne , alpinista, scrittore, uomo dalle maniere brusche e dal cuore generoso. Uno che si definiva domicilié en route , perché i vescovi lo spostavano di continuo, incapaci di incasellarlo. Ebbene, i suoi esordi a Clelles non furono facili. Nos gros bonnets, la mairie compris, l’appelaient l’espion italien , scrive il testimone. Lo guardavano con sospetto, quasi fosse una spia mandata oltreconfine in anni in cui i rapporti tra Francia e Italia erano tutto fuorché sereni. Ma il reverendo – ce colosse de Curé – aveva un dono: la franchezza. Con la sua voce tonante, i modi popolari, la statura erculea e il cuore grande, conquistò ben presto tutti. In poco tempo – racconta sempre la lettera – riportò all’ovile beaucoup de brebis égarées . Le madri lo chiamavano la Providence . “Quante benedizioni si raccoglievano al suo passaggio! E bisognava vederlo mentre si chinava, facendosi piccolo piccolo, per porgere la sua larga mano, dentro la quale i bambini nascondevano tutta intera la loro manina paffuta”. Il cronista insiste: Combien d’enfants agonisants n’a-t-il pas rendu à la vie? “Gli venivano affidati i piccoli malati e, con pochi rimedi che aveva a disposizione, egli li restituiva dopo poche ore pieni di vita e di salute». Dietro la penna di quell’abbonato che si firmava T.G. si intravede la gratitudine semplice di un paese che aveva prima sospettato e poi amato quel prete singolare, tanto da concludere che il suo nome y sera à jamais béni. Il suo carattere caustico, la sua ironia, il suo amore per la montagna e la libertà lo resero una figura quasi leggendaria. Dall’amicizia con Vittorio Emanuele II alle polemiche sulla caccia o sulla stampa valdostana, fino alle avventure al Cervino, ovunque andasse seminava aneddoti, risate, e qualche scandalo. (2) Eppure, a Clelles come ad Ayas, ciò che restava era soprattutto il ricordo di una voce franca e di una mano larga, capace di sollevare tanto i corpi quanto gli spiriti. Son imposante taille herculéenne lui attirait toutes les sympathies … L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) Edizione del 25 gennaio. (2) M. Caniggia Nicolotti, Sacerdoti saggi, sagaci e spiritosi. Preti valdostani di un tempo , pp. 47-68.

La tratta dei bianchi in Valle d’Aosta C’è una memoria che riaffiora sfogliando i vecchi giornali ingialliti della Valle d’Aosta, un’eco lontana che ci parla di bambini e adolescenti strappati alle loro case. Era chiamata “la tratta dei bianchi”: una ferita che attraversa le pagine tra Ottocento e Novecento. Nel marzo del 1872 L’Écho du Val d’Aoste racconta la vicenda di un bambino torinese di appena sei anni, uno spazzacamino, brutalmente trattato dal proprio padrone. (1) Non era un caso isolato: i ramoneurs valdostani partivano ogni inverno verso le grandi città, portando con sé la miseria delle famiglie, e più d’uno aveva subito maltrattamenti. Il giornale puntava il dito contro quella forma di sfruttamento che già allora ricordava da vicino l’infame commercio della tratta. Passano quasi trent’anni e la cronaca si fa ancora più cupa. Il 12 maggio 1900 due individui vengono arrestati ad Aosta: stavano per salire sul treno con una dozzina di bambini tra i nove e i sedici anni, accaparés de leurs parents . Il destino era segnato: alcuni sarebbero diventati spazzacamini, altri sarebbero finiti in una vetreria di Manage, in Belgio, a contatto con il vetro fuso. Il giornale denunciava la leggerezza dei genitori che, per un gruzzolo di monete, avevano affidato i figli a sconosciuti pur di sfuggire alla miseria. (2) Il Tribunale di Aosta, chiamato a giudicare, assolse gli imputati. Ma la Corte d’Appello di Torino riformò quel verdetto con una condanna: Léon Chabeau, impiegato della vetreria, e Léon Grand, capo ramoneur , furono riconosciuti colpevoli di reclutamento illegale. I due avevano stipulato veri e propri contratti con i genitori, promettendo salari dai 50 ai 200 franchi l’anno. La pena fu di 25 giorni di reclusione e 416 lire di ammenda; Grand venne giudicato in contumacia. In quei giorni, un’altra condanna colpì un valdostano: aveva tentato di far espatriare un quindicenne e un diciottenne per portarli a lavorare in una cristalleria. Assolto in prima istanza, fu poi condannato a due mesi di prigione e a 1.000 lire di ammenda. (3) Il 31 maggio 1901, dalle colonne di Jacques Bonhomme , comparve un titolo eloquente: Un infâme trafic de chair humaine . Vi si raccontava dell’impegno di un comitato piemontese di filantropi che cercava di censire i casi di emigrazione clandestina di giovani italiani verso Francia e Belgio. Talvolta, annotava il giornale, queste partenze avvenivano con la connivenza di qualche funzionario pubblico o amministratore locale, bollati come immondes vampires, avides d’or et de sang . La cronaca giornalistica del 1905 ci porta oltre i confini regionali. Il Tribunale di Cherbourg, in Normandia, condannò due “reclutatori” a tre anni di prigione e a 5000 franchi di ammenda per aver assoldato quattro giovani ragazze tra i 18 e i 20 anni da far emigrare a San Francisco. Dovevano essere impiegate come cameriere con salari di 100 franchi al mese: la polizia scoprì invece che erano destinate a una casa di prostituzione. (4) Non si parlava più soltanto di bambini mandati a lavorare lontano, ma di giovani ragazze ingannate da procacciatori francesi e avviate alla prostituzione. E a questo inganno non sfuggirono alcune valdostane. (5) Cosiddetti “industriali francesi” percorrevano la Valle d’Aosta, adescando giovani ragazze per portarle in Francia: là, invece del lavoro in grandi manifatture promesso, trovavano il ricatto e la minaccia della prostituzione. “Dunque, padri e madri di famiglia, siate in guardia contro certains agents d’émigration ”, ammoniva un giornale valdostano. Oggi, da noi, la “tratta dei bianchi” è soltanto un brutto ricordo. Ma non ovunque è così: in troppi angoli del mondo, la miseria continua a vendere i suoi figli, e la dignità umana resta ancora merce di scambio. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) L’Echo du Val d’Aoste , 29 marzo 1872. (2) Le Duché d’Aoste , 16 maggio 1900. (3) Le Duché d’Aoste , 12 settembre 1900. (4) L’Union Valdôtaine , 18 maggio 1905. (5) L’Union Valdôtaine , 20 novembre 1905.

Una parrocchia valdostana in Brasil e Nel 1877 alcune famiglie valdostane si stabilirono nello Stato del Paraná, in Brasile, nella zona di Campo Comprido–Mossunguê, a pochi chilometri dal centro di Curitiba. Tra loro si ricordano Pierre Nicco (del fu Jean), Grat Nicco di Donnas, Juglair e Martignèn. La colonia si sviluppò rapidamente. La fede di quei valdostani, devoti al patrono della Valle d’Aosta, fece sì che già nel 1887 giungesse a Curitiba un’immagine di San Grato, fatto che precedette di poco la costruzione di una cappella nel cuore della colonia. Questa, edificata nel 1889 in legno semplice secondo lo stile rurale, fu intitolata ai santi Grato e Orso, figure care alla devozione valdostana. Nel frattempo gli emigrati riuscirono a trarre buoni frutti dal lavoro agricolo, al punto che nel 1923 il giornale valdostano Le Duché d’Aoste descriveva la colonia come florissa nt e , prospera, e sottolineava che quelle famiglie avevano fait fortune . Con l’espansione urbana, Campo Comprido e Mossunguê divennero quartieri della città di Curitiba, e l’urbanizzazione si rifletté anche nell’odonomastica. La cappella sorse in Rua Francisco Juglair, cognome di uno dei valdostani che diedero lustro alla colonia. Nel 1915 fu trasferita in Rua Grã Nicco, dove ancora oggi accoglie i fedeli. In quell’occasione l’immagine di San Grato, portata a Curitiba nel 1887, trovò la sua collocazione definitiva. Dal 2000 l’edificio è parrocchia autonoma: la Paróquia São Grato , tuttora l’unica in Brasile a portare questo titolo. Ogni anno, il 15 settembre, la comunità di Mossunguê rinnova la tradizione celebrando il patrono San Grato, come fecero i pionieri valdostani quasi 150 anni fa. (1) Il quartiere conserva l’impronta valdostana anche nei nomi delle sue vie. Oltre a Rua Francisco Juglair e Rua Grã Nicco, si trovano strade dedicate a membri della famiglia Nicco: João Nicco, Pedro Nicco, Anselmo Nicco, Dominigas Nicco, José Nicco, Amadeu Nicco. Secondo la stampa locale, fu proprio un Nicco a donare il terreno sul quale sorse la chiesa. Quando nel 1923 padre Chenuil, superiore generale dei missionari scalabriniani, fece una visita in loco, ebbe un entretien proprio con i Nicco (Pierre, figlio del fu Jean, e Grat) a cui i cittadini dedicarono poi le vie della zona; in quel momento ces braves Valdôtains erano déjà avancés en âge . (2) Dal 2023 la cappella storica, riconosciuta come Unità di Interesse di Preservazione, è stata inserita dal Comune di Curitiba nel programma Rosto da Cidade , che prevede il restauro e la valorizzazione dell’edificio, ulteriore segno dell’importanza di questo lascito valdostano in Brasile. (3) Un dettaglio curioso: all’interno della parrocchia di Mossunguê si conserva una statua policroma di San Grato che riprende la stessa iconografia di quella collocata sulla facciata della cattedrale di Aosta. Le due immagini risultano quasi identiche, seppure speculari, a conferma di un legame che attraversa i secoli e l’oceano. L'immagine di copertina, creata con l'ausilio dell'intelligenza artificiale, ha valore puramente evocativo, pur rispecchiando in maniera quasi fedele le statue originali nelle fattezze, nelle posizioni, nei materiali, nei colori e nelle forme. (1) https://arquidiocesedecuritiba.org.br/paroquia-sao-grato-no-mossungue-celebra-seu-padroeiro-neste-dia-15-09/ (2) Le Duché d’Aoste , 11 aprile 1923. (3) https://www.curitiba.pr.gov.br/noticias/iluminacao-cenica-realca-historia-da-capela-sao-grato-refugio-de-simplicidade-no-mossungue/76928

La fuga miracolosa degli ostaggi di Aosta Nel giugno del 1691 la Valle d’Aosta fu travolta dall’invasione delle truppe francesi guidate dal marchese de la Hoguette. Per alcune settimane seimila soldati dilagarono nella regione, lasciando dietro di sé saccheggi, devastazioni, incendi, ponti distrutti, luoghi sacri profanati e persino il tentativo di strappare i tesori alla cattedrale di Aosta. Ma, ingannati dalla presenza del giglio scolpito su alcuni arredi e dalla tradizione che voleva il Duomo restaurato da un antico re dei Franchi, Gontrano, si dissuasero dall’oltraggio, pur non rinunciando al resto. Subito giunse la loro richiesta: una contribution de guerre di 300.000 livres . Dopo trattative, la cifra scese a 200.000, ma rimaneva impossibile. Si consegnarono allora sacchi di grano, bestiame, vino, denaro, preziosi. Intanto i soldati occupavano case e conventi. Nonostante i sacrifici, la somma non fu raccolta. Per garanzia i francesi pretesero sei ostaggi: il canonico Jean-Georges De Tiller e Joseph Tissioret per il clero; il barone François-Gaspard d’Avise e François-Jérôme Brunel per la nobiltà; il consigliere Jean-Joseph Lyboz e l’avvocato Jean-François Ferrod per la borghesia. Condotti a Chambéry, furono rinchiusi nelle prigioni del castello. Là, trattati con durezza e ormai certi che il riscatto non sarebbe più stato pagato, riuscirono a guadagnarsi la fiducia di un giovane soldato francese, Nicolas Champlot de Montargis. Con promesse e forse qualche lacrima, ottennero il suo aiuto. Una notte, il soldato li fece calare dall’alto dell’edificio con una corda. Sperduti nell’oscurità, senza guide, vagarono con Champlot tra campi e villaggi, travestiti da carbonai, (1) implorando la protezione della Vierge e facendo voto. Fu un lungo viaggio di ventiquattro giorni: dalla prigionia di Chambéry circumnavigarono le falde del Monte Bianco, raggiunsero il Colle del Gran San Bernardo e infine rientrarono ad Aosta il 23 dicembre 1691. I fuggitivi, insieme al loro salvatore, furono accolti da un’esplosione di gioia popolare. In solenne processione si recarono alla cappella di Notre-Dame-de-Pitié, oltre il Pont-Suaz (Charvensod), per offrire un ex-voto raffigurante la loro liberazione. Quel quadro, rifatto nel 1837, si trova ancora oggi nella cappella. Nicolas Champlot ricevette un vitalizio e si stabilì in Valle d’Aosta, dove fu accolto come un concittadino. Morì nel 1744. Suo figlio divenne parroco a Sainte-Marie-Magdeleine di Gressan e si spense nel 1812: (2) segno che da quell’avventura nacque un legame destinato a durare ben oltre la fuga miracolosa. Fu un’avventura intensa. Sospesa tra la crudeltà della guerra e la forza della devozione, tra il coraggio degli uomini e il segno della protezione divina. Un'importante pagina di storia valdostana. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. ( 1) L’Indépendant , 22 aprile 1875. (2) J.-A. Duc, Histoire de l’Eglise d’Aoste , VII, pp. 426-437.