Che fine fecero le fontine del 1921?
Mauro Caniggia Nicolotti • 12 marzo 2021
Che fine fecero le fontine del 1921?
In quel periodo, infatti, i giornali riportarono curiose notizie inerenti la scomparsa di numerose forme di formaggio un po’ dappertutto in Valle d’Aosta.
Il perché e il per come ebbe inizio quell’ondata di furti non è chiaro.
Certo è che nella notte tra il 5 e il 6 di aprile le prime fontine - nove per l'esattezza - sparirono dal magazzino di Aosta di Arthur Frassy: valore 1.600 lire.(1)
Qualche tempo dopo, il 18 maggio per la precisione, alcuni ladri penetrarono invece nella grande laiterie de la pleine
a Meysattaz (Saint-Christophe) e rubarono 65 forme di fontina tra le più belle e mature conservate nel deposito: il danno fu valutato in 14.000 lire.
Quei furti sembravano tra loro correlati, tanto che il giornale Le Duché d’Aoste
dichiarò: nous voulons croire que la police aura assez de tact et de décision pour prendre dans ses filets cette bande d’escroqueurs qui semble avoir pris de mire les magasins, assez garnis à cette époque, de nos laiteries.(2)
Sparizioni che, infatti, fecero scalpore e sollevarono molti dubbi su quale strada avessero preso tutti quei formaggi e, soprattutto, chi fossero i colpevoli; qualcuno ne fece addirittura anche una questione politica.(3)
La gente comune, al netto delle polemiche e dei sospetti, era preoccupata e certi bruits
cominciarono a diffondersi nei villaggi valdostani.
A Fénis, per esempio, una banda di malfattori che risultava essersi nascosta nei boschi del circondario allarmò tanti abitanti per tutto quello che ciò poteva comportare; e la produzione casearia sembrava la prima ad essere minacciata, car le moment du désalpage arrive, et nos fontines n’ont plus la protection nécessaire.(4)
Gli abitanti di Oyace e di Bionaz, parimenti spaventati per quanto stava accadendo, furono però anche colti da un’altra terrible surprise: il 19 ottobre - durante un’ispezione all’alpeggio di Grand-Chamin (Bionaz) - il sindaco di Oyace, Julien Pétey, e il suo aiutante Petitjacques furono accolti a revolverate da sconosciuti che si erano introdotti nella baita.
I fatti: verso le 21 i due erano da poco entrati nel buio magazzino quando, non appena accesa una candela per far luce, furono ricevuti a pistolettate da alcuni ladri che qualche tempo prima si erano intrufolati e nascosti nel deposito di Pétey. Petitjacques fu ferito gravemente e anche il sindaco fu colpito da più proiettili ad un braccio, Essendosi assicurato delle condizioni del suo compagno, quest'ultimo semi agonizzante e stremato, si lanciò alla ricerca di aiuto e, dopo tre ore di cammino, riuscì a raggiungere il paese e a dare l’allarme.
Nel frattempo, mentre i delinquenti se l’erano ormai data a gambe portando con loro undici belle forme di fontina,(5)
fu organizzata una squadra di soccorso che riuscì a portare all’ospedale il povero Petitjaques al quale, qualche giorno dopo, fu amputato un braccio.(6)
Poco tempo dopo quel dramma, l’ennesimo furto.
Questa volta un giornale locale informò che la polizia era oramai prossima a districare l’ingarbugliata matassa du gros vol de fontines
avvenuta a Châtillon dove, senza lasciare traccia, erano sparite qualcosa come 140-150 forme di fontina.
Sembrava, infatti, che - grazie anche ad alcune “soffiate” - cinque sospettati erano già stati arrestati,(7) ma dopo 47 giorni di prigione questi risultarono innocenti...(8)
Intanto, i furti non si fermarono a quel 1921, basti pensare che già solo nel febbraio del 1922 a Villefranche (Quart) furono rubate ancora 26 forme di formaggio dalle cantine della latteria consortile; quattro furono poi abbandonate dai ladri in un prato durante la fuga.(9)
Ulteriori indagini non sembrarono portare a molto altro e l'affaire
non fu del tutto chiarito...
(1) Le Duché d’Aoste, 13 aprile 1921. (2) Edizione del 25 maggio 1921. (3) La Vallée d’Aoste, 11 giugno 1921. (4) Le Mont-Blanc, 9 settembre 1921. (5) La Doire Balthée, 28 ottobre 1921, Le Pays d’Aoste, 28 ottobre 1921. (6) Le Duché d’Aoste, 2 novembre 1921. (7) La Doire Balthée, 18 novembre 1921. (8) La Doire Balthée, 6 gennaio 1922. (9) Le Pays d’Aoste, 10 marzo 1922.

Tutte le Aosta del mondo Provate a immaginare che il nome Aosta non appartenga solo alla nostra città alpina, con le sue mura romane e l’Arco di Augusto. Immaginate che quel nome abbia viaggiato lontano, si sia trasformato in Aoste, Aouste, Valdosta, lasciando tracce in borghi francesi, in sogni coloniali e persino sotto il sole della Georgia americana. È la storia sorprendente di un filo che parte da Roma e ancora oggi lega luoghi distanti. Tutto nasce dal latino Augusta , titolo imperiale che i Romani diedero a città nuove o rifondate in onore dell’imperatore. Così, oltre alla nostra Augusta Praetoria Salassorum , ritroviamo Aoste , nell’Isère, piccolo borgo francese che conserva tracce gallo-romane. Più a nord, nelle Ardenne, sorge Aouste , villaggio di campi e boschi con una chiesa medievale fortificata dedicata a Saint-Rémi. E ancora, nella Drôme, Aouste-sur-Sye , un alveare prealpino di case chiare dai tetti rosati dalle quali emerge un bel campanile. Ma la storia non si ferma qui. Nel 1940, durante la breve stagione coloniale italiana, fu annunciata persino un’“ Aosta d’Etiopia ”: un centro agricolo da fondare nell’Harrarino, dedicato al Duca d’Aosta viceré e alla nostra città. Ne parlarono i giornali, si ipotizzò persino un gonfalone da inviare dall’Italia, ma il progetto rimase lettera morta allo scoppio della guerra. E infine, come in un gioco di rimandi inattesi, attraversiamo l’Atlantico. Negli Stati Uniti, in Georgia, esiste Valdosta , città di oltre 50.000 abitanti. Il suo nome deriva da “Valle d’Aosta”, appellativo che un governatore diede alla sua piantagione nell’Ottocento. Lì, tra magnolie e clima subtropicale, sopravvive l’eco lontanissima della nostra Valle alpina. Ecco allora la piccola famiglia delle Aosta del mondo. Ognuna con il suo carattere, le sue storie e i suoi paesaggi. Sarebbe bello farle incontrare tutte, magari in un gemellaggio o una grande festa, sotto lo stesso nome antico che ancora oggi ci accomuna.

La leggenda che segue è ispirata a La Légende des dentelles de Cogne , scritta da Joséphine Duc-Teppex e pubblicata sul giornale Le Mont-Blanc il 17 agosto 1923. Il testo è stato da me reinterpretato e riscritto in italiano, mantenendone lo spirito popolare e narrativo. La leggenda delle dentelles di Cogne Un tempo, a Cogne, i lunghi inverni erano duri e monotoni. Le case, povere e buie, resistevano come potevano al freddo e alla neve. Nelle stalle, le famiglie si radunavano con vicini e amici, attorno al fuoco alimentato dalle pigne, per scaldarsi, parlare e raccontare storie. Fra tutti, il più atteso era Jérôme, che scendeva da Gimillan per raggiungere la casa del cugino Mathurin: passo sicuro, appuyé sur un gros bâton noueux, les souliers ferrés, le bonnet de laine enfoncé bien bas sur le front . Era il miglior narratore di montagna: conosceva non solo le storie dei vecchi, ma anche quelle raccontate nei libri, l’origine delle famiglie, persino i nomi delle pietre. Il était enfin la tradition du pays et sa science. Il en était de plus la sagess e ! Una sera d’inverno, le donne della stalla gli chiesero un racconto. J érôme sorrise e cominciò: «Questa storia non viene dai libri, ma dalla mia stessa nonna, Césarine. Un tempo ella era giovane e bella, ma povera e sola con suo padre, oppressa dai debiti. Un giorno, triste davanti alla porta, sospirò: “ Ah, se ci fossero ancora le fate buone, che aiutano chi soffre!” Ed ecco che apparve la mère Cunégonde, una fata alta e magra, con il capo incoronato di rododendri e un abete di cinque metri come bastone. “Ho visto la tua pena dalla cima del Gran Paradiso” le disse, “e vengo a consolarti” . Battendo tre volte a terra con la punta del suo bastone, fece comparire dieci minuscoli operai, spiritelli vivaci, non più alti di un fiammifero. Poi soffiò sulle mani di Césarine: i diavoletti entrarono nelle sue dita, trasformandole in strumenti di meraviglia. Infine, dalla punta del suo abete lasciò cadere un fiocco di ghiaccio purissimo del Gran Paradiso, così fine e trasparente da sembrare intagliato come i pizzi di Venezia. “Ecco il tuo dono” disse, “sta a te saperne trarre fortuna” . Poi si avviò verso il ghiacciaio della montagna. Da quel giorno, le mani di Césarine filavano e lavoravano pizzi così belli e delicati che presto si diffusero ovunque. Con il lavoro pagò i debiti, visse serena e non conobbe più la noia: i diavoletti, nascosti nelle sue dita, le tenevano compagnia mentre lei creava merletti e cantava». La bella Giovannina, una canavesana della Val Soana trasferita a Cogne, che spesso si stancava davanti al suo arcolaio, comprese la lezione: si accorse anche lei di avere autant de diablotins habiles et lestes que de doigts . Da quel momento la sua casa si riempì di fiori e di merletti, e tutte le donne di Cogne adornarono i loro costumi con quei pizzi che ancora oggi caratterizzano l’abito tradizionale del paese. Così, secondo una leggenda, nacque la tradizione dei pizzi a Cogne... L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa.

Il gigantesco albero di Courmayeur Nell’estate del 1832 il naturalista francese Sabin Berthelot (1794-1880), attraversando le vallate del Monte Bianco, s’imbatté in un abete rosso ( Abies excelsa ) tra Dolonne (Courmayeur) e Pré-Saint-Didier. I valligiani lo chiamavano Écurie des chamois ; in alcune carte erudite ricorre anche come Le sapin du Bequé . Misurato au-dessus du collet de la racine , presentava 7 metri e 62 centimetri di circonferenza; confrontando gli accrescimenti di abeti più giovani delle foreste vicine, Berthelot stimò addirittura un’età attorno ai 1200 anni. (1) Le sue osservazioni passarono presto sulla carta stampata e circolarono a lungo nelle pubblicazioni di settore, portando la voce dell’albero nel circuito colto europeo. Tempo dopo, nell’agosto 1849, Filippo Parlatore transitò in Valle d’Aosta. Nel Viaggio (2) confessò con rammarico di non aver chiesto alla guida di condurlo fin lì, ma fissò su pagina nome, fama e toponimo, rimandando alle misure e all’età già date da Berthelot. L’anno seguente, 1850, la Feuille d’annonces d’Aoste , nei suoi Faits curieux , descrisse lo stesso abete monumentale à la base des pentes méridionales du Mont-Blanc , tra Dolonne e Pré-Saint-Didier, sur la montagne de Régné , ribadendo le osservazioni di Berthelot e l’eccezionale longevità, malgré sa magnifique végétation et sa verdoyante vieillesse . (3) Nei decenni successivi libri, almanacchi e riviste di settore ripeterono quasi meccanicamente le note del 1832; poi tacciono sull’esemplare. In una schedatura moderna risalente al 1994 compare, in località Les Golettes (1.340 m, a monte di Dolonne), un abete rosso colonnare chiamato Lo Sapeun de Corbetta (altro modo per dire Bequé, «diavolo»): altezza 28 m, circonferenza 3,36 m, diametro 1,07 m, età stimata oltre 250 anni. La chioma forma una volta di circa 12 m di diametro che, oltre a servire come sicuro riparo ad animali e persone, veniva adoperato come provvisorio fienile nel corso delle passate fienagioni (si racconta che poteva contenere 20 “balloni” di fieno) . (4) Benché nomi e area coincidano, i dati non combaciano. È possibile che l’albero osservato nel 1832 sia scomparso nella seconda metà dell’Ottocento e che la sua fama sia durata ancora per qualche decennio per copiatura di repertorio; l’esemplare attuale è un altro. Si tratta di una pianta che, all’epoca della visita di Berthelot, aveva già un’ottantina d’anni. Nulla di sorprendente, se consideriamo quanto ricordava nel 1850 la Feuille d’annonces d’Aoste : a peu de distance de ce sapin, se trouve dans la forêt de Ferré, près du col de ce nom, au vallon de l’Allée-Blanche, un mélèse qui a cinq mètres 45 centimètres de circonférence au-dessus du collet de la racine, et qui ne doit pas avoir moins de huit cents ans . Nient’altro. Purtroppo. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) S. Berthelot, Sur la longévité et l’accroissement des arbres , dicembre 1832, p. 17. (2) F. Parlatore, Viaggio alla catena del Monte Bianco e al Gran San Bernardo eseguito nell’agosto del 1849 , p. 83. (3) Edizione del 30 settembre 1850. (4) C. Letey (a cura di), Le Piante Monumentali della Valle d’Aosta , 2001, p. 28.

Dove si trova il Mont-Au? Avete mai sentito parlare del Mont-Au? È un nome curioso, quasi dimenticato, che si incontra in una cronaca giornalistica valdostana del 1° ottobre 1875. Un giornale raccontava l’impresa dell’ingegnere Ernesto Santelli e del celebre alpinista torinese professor Martino Baretti, membri delle sezioni del Club Alpino Italiano di Aosta e di Torino. Con loro c’erano tre minatori di Champdepraz: Jean Borio, caporale della miniera, Jean Gaydo e Joconde Dhérin. Insieme avevano raggiunto la vetta della pointe vierge du Mont-Au, vallée de Champdepraz . (1) Il nome Mont-Au è curioso, e compare poco nelle cronache alpine. (2) Forse perché la montagna, di altitudine moderata, non offriva rien de remarquable , e i suoi colli vicini ne sont connus que des chasseurs . (3) Ma dietro quel toponimo si nasconde una storia: probabilmente è la contrazione di Monte Acuto , una definizione che calza perfettamente alla forma appuntita di quella cuspide di serpentino che domina i valloni vicini, (4) proprio in prossimità della miniera di magnetite situata nei pressi del Lac-Gelé. (5) Il giornale del 1875 sottolineava le difficoltà dell’ascesa: Les ascensionnistes ont dû surmonter bien de sérieuses difficultés pour parvenir à la sommité . Una volta giunti in vetta, il panorama si aprì grandioso davanti ai loro occhi. Allora i pionieri piantarono una bandiera e costruirono tre hommes de pierre , (6) gli ometti di pietra che ancora oggi accompagnano i camminatori sui sentieri d’alta quota. E proprio da quel momento la cima entrò nelle guide turistiche: On en fait l’ascension en 7 h. de Champ-de-Praz et en 8 h. de Chambave . (7) Oggi quella vetta non porta più il nome di Mont-Au . È conosciuta come Mont-Avic , 3.006 metri, lungo il confine tra Chambave e Champdepraz. Una montagna che ha dato il nome a un parco naturale regionale, istituito nel 1989. Area che si estende su quasi 5.750 ettari tra la Valle di Champorcher e il vallone di Champdepraz. Più di ottant’anni dopo quella prima ascensione, nel 1957, alcuni giovani di Champdepraz salirono sulla cima, portando con loro una piccola statua della Madonna, dono della sezione CAI di Ivrea. La collocarono lassù, a protezione degli alpinisti. Così, da un toponimo poco conosciuto, il Mont-Au , siamo arrivati al Mont-Avic che conosciamo oggi: una montagna che racconta insieme l’avventura degli uomini, la bellezza della natura. Immagine di copertina: Il Mont Avic. (1) L’Echo du Val d’Aoste , 1° ottobre 1875. (2) Le Mont-Blanc , 7 marzo 1924. (3) Feuille d’Aoste , 17 maggio 1871. (4) G. Berutto - L. Fornelli, Emilius, Rosa dei Banchi, Parco del Mont Avic , collana Guide dei monti d’Italia, CAI - TCI, 2005. (5) Aoste et sa Vallée. Guides Illustrés Reynaud , p. 24. (6) Feuille d’Aoste, 6 ottobre 1875. (7) Aoste et sa Vallée. Guides Illustrés Reynaud , p. 24.

Una donna nella neve Il 6 gennaio 1930, il settimanale australiano The Recorder (Port Pirie, South Australia), riprendendo un articolo del Daily Chronicle di Londra, pubblicava un titolo che oggi colpisce per la sua semplicità drammatica: Woman’s ordeal – Spends Night in Snow (“Il calvario di una donna – Trascorre la notte nella neve”). Il testo raccontava la storia di Proserpina Debaz, una sarta valdostana, e di sua figlia di otto anni. Il marito era emigrato in Francia, come molti in quegli anni. Lei voleva raggiungerlo passando dalla Svizzera. Ma alla sua richiesta di passaporto, le autorità fasciste risposero con un secco diniego. Così Proserpina prese una decisione radicale: attraversare clandestinamente il confine. Con la bambina al seguito, si unì a un gruppo di quattordici persone. Tentavano il passaggio al Colle del Teodulo, nei pressi del Cervino. Era inverno pieno. Le condizioni meteorologiche proibitive erano una strategia: con la tormenta, le pattuglie – forse – sarebbero state meno attente. Ma due miliziani fascisti, appostati nei pressi del colle, scorsero il gruppo. E aprirono il fuoco. Proserpina cadde svenuta nella neve. Un uomo fu colpito. La bambina restò accanto alla madre, nel buio e nel gelo. Solo all’alba, i militi trovarono le due vive, ma sfinite. Le soccorsero. E poi le arrestarono. Le portarono - scrive il giornale - alla “stazione fascista più vicina” ( the Fascist police station ). E lì la cronaca si interrompe. Non sappiamo se la donna riuscì mai a raggiungere il marito, o se la bambina serbò memoria di quella notte. Non sappiamo nemmeno se i giornali locali vennero a conoscenza della vicenda, o se, più probabilmente, la ignorarono per volontà del Regime e per effetto della censura. Sappiamo solo che la loro storia, ignorata in patria, fu ripresa dalla stampa inglese e poi da quella australiana. Molto lontano dalla Valle d’Aosta. Dove non se ne scrisse. Dove le cronache informarono solo che la neve, in quei giorni, era alta un metro. (1) L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) Le Mont-Blanc , 27 dicembre 1929.

Quando un intero villaggio valdostano finì in tribunale Le montagne che separano la valle di Cogne dalla Plaine di Aosta non sono soltanto confini naturali: per secoli sono state pascoli condivisi, terre di scambio ma anche di contrasti. È il caso dell’alpeggio di La Pierre (2.081 m), nei documenti chiamato La Pera , a monte di Ozein (Aymavilles), lungo il confine con la valle di Cogne. Nel medioevo i pastori di Chésallet (Sarre), legati ai nobili de Casaleto , salivano fin lassù e sfruttavano i pascoli, tanto da aver chiamato “Chésallet” quelli oltre il crinale, nella valle di Cogne. (1) Con il raffreddamento climatico del XIII secolo si stabilirono più in basso, colonizzando la zona di Cogne dove fondarono il villaggio di Épinel. Ma non smisero, mai di tornare in quota per il pascolo e il transito. Non sorprende, quindi, che nel corso del tempo e delle necessità siano nate tensioni tra le comunità vicine per lo sfruttamento degli alti pascoli. Nel 1898 la questione approdò addirittura in Pretura ad Aosta: su richiesta di alcuni abitanti di Aymavilles furono convocati tous les chefs de famille d’Épinel . L’udienza si tenne il 16 agosto per chiarire l’uso corretto dell’alpeggio. Il Pretore di Aosta stabilì che i pascoli de La Pera potevano essere utilizzati dagli abitanti di Épinel, ma solo entro i limiti dei confini comunali fissati nel 1873, dans la localité dite Tavaillon au moyen du placement de plusieurs limites très visibles et apparentes . Gli épinolens furono inoltre condannati a pagare danni e spese processuali, con il divieto di manomettere i confini segnati. (2) Oggi la situazione è ben diversa: le mandrie, molto ridotte, trovano erba sufficiente in altri pascoli della zona e nessuno di Épinel ha più motivo di recarsi a La Pera. Resta la memoria di una disputa che ricorda quanto, un tempo, ogni metro di prato fosse vitale per la sopravvivenza delle comunità alpine, e di un clima che periodicamente mutava. Condizioni che oggi hanno reso poco appetibile l’area di Tavaillon, un tempo conosciuta come Chésallet, che non offre più i prati appetibili, né le coltivazioni di secoli fa. Immagine di copertina: le zone alte di Epinel; sullo sfondo Cogne e il Prato di Sant'Orso. (1) A. M. Patrone, Liber reddituum Capituli Auguste , pp. 267-268. (2) Le Mont-Blanc , 8 luglio 1898.

A 14 ore e 15 minuti da Cogne C’era un tempo in cui i monti non erano barriere, ma ponti. Le valli non vivevano isolate come oggi potremmo credere: tra Cogne e le terre valdostane e piemontesi confinanti, i legami erano fitti, quasi naturali. Non si trattava soltanto di scambi ufficiali o rapporti feudali, ma di un movimento continuo di persone, merci e storie. Tra queste relazioni, meritano qui attenzione quelle che legavano comunità valdostane tra loro, in particolare quelle che si intrecciavano nell’angolo sud-orientale della Valle d’Aosta: Champorcher e e Cogne. Qui i potenti signori di Bard — avvocati laici del vescovo di Aosta e rappresentanti della avouerie di Cogne (1) — esercitavano il loro potere su vaste terre e pascoli, tra cui quelli di Broillot, di Peradza (nell’alto vallone dell’Urtier) e numerosi altri feudi. (2) La mappa precisa delle loro proprietà a Cogne resta incerta, ma i documenti medievali attestano il possesso di diversi diritti sulla comunità e di altre terre disseminate nella valle. (3) Attraverso la Finestra di Champorcher, naturale collegamento tra le valli di Champorcher e di Cogne, correva - e corre ancora oggi - un sentiero che permetteva contatti frequenti. E i cogneins , come testimoniano le cronache del Duecento, lo percorrevano spesso: scendevano al mercato di Bard, lavoravano nelle sue terre, talvolta vi si stabilivano. Non mancano prove della loro presenza stabile a Bard e a Donnas, dove compaiono negli atti come habitatores o addirittura come burgenses originari di Cogne. (4) Tra Duecento e Trecento troviamo nomi che oggi suonano come echi lontani: Petrus de Coigny , borghese di Donnas; Iohannes de Cogny ; Beatrix de Cognia , residente a Donnas e insieme al marito Perreto Barberio , proprietaria di un forno in paese; (5) il calzolaio Iacobus de Coignia , acquirente di un terreno; Anselmus de Cognya e suo padre, Iohannes Chalvet . (6) Oggi, percorrendo i sentieri che salgono verso la Finestra di Champorcher, è difficile immaginare quel viavai di mercanti, pastori e artigiani. Eppure, per secoli, Cogne e i paesi alle porte della Valle d’Aosta hanno vissuto non come mondi separati, ma come stanze di una stessa casa: unite da un corridoio di pietra e fatica, di amicizie e interessi, di montagne attraversate. Immagine di copertina: il cartello posto presso il municipio di Cogne, all’incrocio tra le strade che portano a Valnontey e a Lillaz. (1) J.-A. Duc, Histoire de l’Eglise d’Aoste ( HEA ), III, p. 49. (2) Nel 1365 risultava che i nobili Gontard possedevano lassù delle terre che anticamente avevano acquisito da Mathieu, figlio di Hugues de Bard. (3) HEA , II, p. 362-363. (4) J.-G. Rivolin, Uomini e terre in una signoria alpina. La castellania di Bard nel Duecento , in "Bibliothèque de l’Archivum Augustanum", XXVIII, pp. 72-73. (5) Ivi , p. 177, n. j. (6) Ivi , p. 73 e nn. 1-2.

Quella caricatura su una roccia di Cogne... Lungo l’antico tracciato della strada per Cogne, nei pressi della cava di Senaget, nel comune di Aymavilles, si incontra una parete rocciosa che un tempo conservava due elementi ben distinti, testimoniati da una fotografia dei primi del Novecento: (1) - al centro, una delle storiche incisioni fatte realizzare da César-Emmanuel Grappein (1772–1855); - sulla sinistra, un curioso disegno bianco, probabilmente tracciato con calce o vernice, che raffigura una figura umana stilizzata: braccia aperte, cappello a cilindro, e sotto i piedi una sorta di skateboard. A lato, una forma allungata sembra suggerire una miccia o una fiammata. Accanto a questi segni incisi e dipinti, la scena è completata dalla presenza di tre viaggiatori in abiti d’epoca, fotografati in sosta lungo il cammino. Il luogo si trova lungo il percorso della prima strada carrozzabile per Cogne, voluta e promossa proprio dal dottor César-Emmanuel Grappein, medico della valle e figura centrale nella storia di Cogne. La strada fu realizzata tra il 1807 e il 1834, su progetto dell’ingegnere André-Joseph Perrod. Nel suo ruolo di direttore dei lavori, Grappein fece incidere sulle rocce circostanti massime morali e citazioni filosofiche, tratte da autori come Virgilio, Ovidio, Rousseau, Condillac, Balzac e Fénelon-Solignac. Il suo intento era quello di trasformare il percorso in un itinerario non solo fisico, ma anche filosofico e riflessivo. Quelle incisioni, lette anche dai primi turisti stranieri che verso la metà dell’Ottocento cominciavano a scoprire la valle, non furono però sempre accolte favorevolmente da alcuni compaesani di Grappein. Anzi, suscitarono ostilità e sarcasmi. Grappein stesso, in uno scritto autobiografico, racconta: « I miei nemici, irritati, furiosi ed incattiviti contro le nuove carrozzabili che facevo per permettere uno sbocco a valle del minerale ferroso, scrivevano sulle rocce, che si trovano lungo le nuove strade, delle ingiurie: libelli, sarcasmi, dove la mia reputazione era crudelmente fatta a pezzi .» (2) Il disegno visibile sulla parete potrebbe dunque appartenere proprio a quella stagione polemica, databile tra il 1807 e il 1834, e rappresentare una caricatura ironica di Grappein stesso. Il cappello a cilindro, chiaro segno distintivo, e la posizione su un carretto — forse allusione al trasporto del minerale — sembrano voler deridere la sua figura pubblica. Il dettaglio della miccia può suggerire un’ironia ulteriore: come se il “carretto del progresso” fosse sul punto di esplodere, carico non solo di tensioni sociali, ma anche del carattere impaziente, impetuoso e incendiario del suo promotore. Come ricordava il dottor Auguste Argentier, successore di Grappein: « A vedere quel vecchio dal parlare ardente, con la fronte coronata di capelli bianchi, si sarebbe detto l’Etna: con la cima coperta di neve, ma la gola che vomita torrenti di fuoco .» (3) Per quanto rudimentale, quel disegno colpisce per la sua stilizzazione sorprendentemente moderna e per la capacità di concentrare, in pochi tratti, un’intera polemica storica. Un piccolo segno sulla pietra, fragile eppure duraturo, che — anche se scomparso — continua a riecheggiare tra ambizioni, conflitti e memoria. In copertina: il disegno murale, da me riprodotto su carta ispirandomi alla fotografia d’epoca citata nel testo e in nota, accanto al cappello a cilindro appartenuto al dottor Grappein, oggi esposto al Museo Minerario di Cogne. (1) La scena è documentata in una fotografia scattata probabilmente attorno al 1915, oggi conservata presso l’Archivio Fotografico della Fondazione Torino Musei. Titolo: Le rupi con iscrizioni sulla strada per Cogne. Valle di Aosta, valle di Cogne, alcuni escursionisti nei pressi di incisioni rupestri lungo la strada per Cogne. Autore: Mario Gabinio. (2) C.-E. Grappein, Mon testament: 1828-1855 ; a cura di G. Vassoney, Archivio storico dell’Associazione dei Musei di Cogne, p. 63. (3) A. Argentier, Le docteur Grappein. Esquisse biographique , in P. Malvezzi, Le val de Cogne , p. 99.

La posta “volante” di Cogne In Valle d’Aosta, un tempo — e in parte ancora oggi — la corrispondenza da Aosta verso le vallate laterali viaggiava lungo strade tortuose e faticose. I corrieri postali salivano lentamente tra i villaggi di montagna, affrontando neve, pioggia e pendii scoscesi. Per Cogne, abituata a quella lentezza, il cambiamento arrivò all’improvviso negli anni Venti del Novecento. Non fu una rivoluzione generale, ma un privilegio singolare: grazie al sistema di trasporto della magnetite, che collegava la miniera ad Aosta con una combinazione di teleferica e ferrovia, anche la posta poté sfruttare questa moderna infrastruttura. La corrispondenza partiva da Aosta, saliva in teleferica fino a Eaux Froides, nei pressi di Pila (Gressan), e da lì proseguiva su un trenino che dal 1922 percorreva la galleria del Drinc, scavata nel cuore della montagna. Dal versante opposto sbucava a Épinel e raggiungeva infine Cogne, garantendo una rapidità allora impensabile: un lusso che le altre valli laterali potevano solo invidiare. Lo raccontava con orgoglio il giornale Le Duché d’Aoste del 3 gennaio 1923: « Nessun altro comune può vantare un servizio postale così originale e rapido come il nostro. Pensate un po’: ormai la posta ci arriva attraverso il tunnel del Drinc, che ha già trovato la sua utilità. Invece di dover leggere il nostro bravo giornale due giorni dopo la sua uscita a Torino o ad Aosta — come capita nelle altre valli laterali — noi riceviamo le notizie fresche di giornata. Evviva il progresso! » (1) Per Cogne la modernità arrivò per vie traverse: la strada carrozzabile giunse solo nel 1918, con colpevole ritardo. Una delle ragioni addotte era di natura strategica: evitare che eventuali truppe francesi potessero accorciare il cammino verso la pianura padana passando da Cogne, invece che da Aosta. E in effetti, nel 1800, al seguito di Napoleone, un centinaio di francesi risalirono proprio questa valle per studiare un possibile aggiramento della fortezza di Bard. Un secolo dopo, con l’arrivo della posta attraverso la galleria del Drinc, la piccola comunità di montagna si ritrovò a ricevere notizie più veloci che altrove in Valle d'Aosta. E viene da sorridere pensando alle parole di Napoleone Bonaparte: « C’è da avere più paura di tre giornali ostili che di mille baionette » L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) Aucune commune ne peut vanter un service postal original et prompt comme le nôtre. Figurez-vous; désormais la poste nous arrive par le tunnel du “Drink” qui sert ainsi déjà à quelque chose. Au lieu d’être réduits à lire notre brave journal deux jours après qu’il a paru à Turin ou à Aoste, comme cela arrive pour les autres vallées latérales, nous avons les nouvelles fraîches. Et vive le progrès!

Dateci le caramelle Tra i dolci più lontani nella memoria di Cogne spiccano le caramelle, che la storia in qualche modo restituisce insieme alla marmellata. La notizia più antica di confetture risale al 1662, quando due baissées de confiture furono offerte al vescovo di Aosta, Conte di Cogne, in occasione di una delle sue consuete visite annuali. Per quanto riguarda le caramelle, invece, bisogna attendere un po’ più a lungo. Nel 1835, un curioso aneddoto emerge grazie alla penna del cavaliere De La Pierre, che nei suoi articoli dipingeva i cogneins come estimatori delle caramelle, al punto da esaltare Cogne come “la più dolce delle nazioni”. Secondo lui, i viaggiatori, anche senza conoscere la strada per Cogne, potevano raggiungere il paese seguendo la scia di bianchi involucri di caramelle abbandonati lungo il cammino dagli abitanti, che le acquistavano al mercato di Aosta. C’era anche chi ironizzava: a causa della pénurie d’argent e della pénurie de tout , qualcuno suggeriva che fosse meglio cambiare mestiere. Così racconta il cavaliere De La Pierre nel 1841, citando il povero Colas, lavoratore itinerante e nouvelliste des villages , che diceva con amara ironia: Je quitte le métier, je me fais épicier et je m’en vais vendre des sucréries à Cogne . (1) Comunque sia, l’aneddoto sulla golosità dei cogneins , o leggenda che fosse, sopravvisse a lungo. Talmente tanto che, ancora nel 1917, allorché un decreto del luogotenente del Regno d’Italia vietava il commercio di dolciumi nei giorni di sabato, domenica e lunedì, un giornale valdostano invitava gli abitanti di Cogne a sfruttare il martedì (che ancora oggi è giorno di mercato ad Aosta) per l’acquisto delle caramelle. Dolci che sarebbero serviti ai cogneins come viatico per il loro ritorno a casa. Il giornalista richiamava proprio la memoria delle carte delle caramelle, che si diceva venissero abbandonate lungo la strada: Il paraît en effet qu’autrefois, si ce n’est encore de nos jours, la route de Cogne était jalonnée tout le long par des papiers à caramels, et qu’on ne pouvait s’y tromper . (2) Per la cronaca, ancora oggi si ricorda il detto: P’ arévé en Cogne baste suivre le papéi di caramelle . A Epinel, durante la ricorrenza del Cantès (1° novembre), i giovani del paese salgono sul campanile e, al suono delle campane, lanciano caramelle ai bambini radunati alla base della torre. Un tempo, i dolci erano un bene prezioso e questo gesto contribuiva a simboleggiare il passaggio dei giovani all’età adulta e, per i bambini che ricevevano le caramelle, l’attesa dolce e lenta verso il futuro da adulti. Nel 1906, inoltre, l’ abbé Gorret raccontava di un’importante tradizione: “Bisognerebbe partecipare a un matrimonio a Cogne. La sposa è circondata da giovani amiche e compagne, tutte con ampi nastri verdi legati alla cintura, mentre gli sposi hanno nastri blu. Lo sposo ha il suo gruppo di amici scelti, tutti adornati di nastri e ghirlande, con il cappello che riporta il segno della festa dell’amico. Ma tutti gli invitati devono riempire le tasche di caramelle da distribuire generosamente alla popolazione che si dispone ai lati del corteo degli sposi. Dopo la cerimonia religiosa nella chiesa, il corteo nuziale si dirige verso la casa dello sposo, dove un pranzo pantagruelico fa dimenticare il passare delle ore”. (3) Caramelle e sempre caramelle... Forse, alla luce di questi racconti, le caramelle potrebbero rivivere come simbolo della tradizione dolciaria di Cogne , un richiamo al gusto antico che avrebbe accompagnato per secoli il ritorno a casa dei cogneins . Potrebbero davvero diventare un prodotto iconico , capace di racchiudere e perpetuare le storie e le usanze che il tempo ci ha restituito. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) Feuille d’Annonces d’Aoste , 15 giugno 1841. (2) L’Echo de la Vallée d’Aoste , 27 gennaio 1917. (3) J. Gérard, L’abbé Amé Gorret descrive la popolazione di Cogne del 1865/1866 , in Bollettino della Biblioteca Comunale di Cogne, n. 2, été 2015, p. 37; Fonte: Administration Communale de Valtournenche, Abbé Amé Gorret (L’Ours de la Montagne) - Autobiographie et écrits divers , Torino 1998.