Emmanuel Vallet e la vernice “valletina” (2)

Mauro Caniggia Nicolotti • 22 giugno 2023

Emmanuel Vallet e la vernice “valletina” (2)

In realtà, proprio in quell’anno, Vallet si spense, all’età di 67 anni.
Nel pomeriggio del 18 agosto 1894, dopo essere giunto ad Aosta con il treno delle 14.28, egli era tornato per fare visita ai suoi parenti e amici, et pour profiter de l’air pur de nos montagnes, affaibli comme il était, par son travail et par une maladie qu’il venait de faire. Appena uscito dalla stazione ferroviaria, fu colto da un improvviso malessere e venne trasportato in carrozza all’Hôtel Lanier in piazza, dove trascorse le sue ultime ore.

Come fu ricordato durante il suo funerale, Emmanuel Vallet era nato ad Aosta e fu un homme de coeur, un excellent patriote, un industriel distingué, un bon Valdôtain qui a honoré son pays.(1)

Egli aveva affrontato molte sfide nella vita. I suoi genitori erano privi di mezzi finanziari, quindi, dopo aver completato la scuola elementare, Vallet iniziò subito a lavorare: seguì le orme di suo padre diventando un panettiere.
A ventuno anni, svolse il servizio militare e prese parte alla Prima guerra d’indipendenza italiana del 1848-49, durante la quale fu decorato con una medaglia.(2) 
Tornato ad Aosta, continuò a lavorare come panettiere, ma poi decise di emigrare in Francia in cerca di fortuna.

A Parigi, per diversi anni, guadagnò il suo sostentamento attraverso un duro lavoro manuale.
Riuscì a trovare del tempo per frequentare le scuole serali per adulti organizzate dall’Association Philotechnique, fondata nel 1848, che trent’anni dopo aprì una succursale ad Aubervilliers, un comune alle porte di Parigi, dove Vallet si iscrisse, nonostante il suo impegno lavorativo.(3)
Lì, ebbe la possibilità di seguire un corso di chimica applicata all’industria. Era così preparato ed interessato all’argomento che riuscì a ottenere un impiego presso una prestigiosa fabbrica di vernici parigina, dove divenne direttore tecnico.

Vallet era già noto allora per i suoi esperimenti e le sue scoperte, tra cui un metodo pour le blanchiment des os qui sont ainsi assimilés à l’ivoire.(4)
Le sua abilità gli permisero di ottenere una mention honorable all’Esposizione Universale di Parigi del 1878, in collaborazione con l’imprenditore Weeger. 
In realtà aveva presentato una domanda al governo italiano per ottenere un suo spazio nell’esposizione nella sezione riservata all’Italia, ma, per motivi sconosciuti, non ricevette risposta... Pertanto, si dovete associare alla delegazione francese e, in quanto straniero, espose i suoi prodotti come contremaître chez M. WeegerC’est sous ce nom qu’il a obtenu encore, pour ce procédé, une medaille de bronze.(5) 

Grazie a questi successi e alla sua nuova situazione economica, Vallet non mancò di sostenere l’associazione che gli aveva permesso di studiare e i bisognosi, soprattutto i valdostani che bussavano alla sua porta a Parigi. 
Purtroppo, questo periodo di benessere fu presto interrotto dalla morte della sua dolce compagna, sua moglie, e dai problemi economici che si acuirono a seguito della guerra franco-prussiana (1870-71), del breve periodo della Commune di Parigi (1871) e delle nuove condizioni politiche internazionali tra Italia e Francia. Per tali ragioni, Emmanuel Vallet decise di abbandonare quest’ultima e di tornare in patria, dove sposò Françoise Darbelley.(6)

Come filantropo, sostenne la Société ouvrière d’Aoste,(7) si interessò alla realizzazione della ferrovia Ivrea-Aosta e partecipò agli incontri sociali e politici tra i valdostani che si tenevano a Torino, dove si era poi trasferito.
Nel 1885, si venne a sapere che proprio nel capoluogo piemontese Vallet aveva collaborato con il signor Gaspare Toia, che aveva impiantato una fabbrica per la produzione di inchiostri e vernici.(8)

Nel tempo, Vallet raccolse l’interesse di molti, anche di politici. 
C’era perfino chi auspicava che i suoi studi e i suoi ritrovati trovassero un degno spazio presso il Regio Museo Industriale di Torino,(9) ma non fu cosi.

Nel 1894, se ne andava con Vallet anche il suo piccolo impero. Pochi mesi dopo il suo decesso la sua azienda fu liquidata: a partire dal 15 ottobre 1894 la vedova, la signora Françoise Darbelley, fu incaricata di occuparsi dei conti per chiudere quell’esperienza.(10)
Il 30 aprile 1896, il notaio e avvocato Carlo Formica si occupò, invece, della vendita dello stabilimento industriale, fabbricati e terreni, già fabbrica di vernici, della ditta Emanuele Vallet e Comp., in Pozzo di Strada, un quartiere situato a ovest di Torino.(11) La struttura doveva trovarsi al n. 47 di corso Principe Oddone.(12)

Rimane il dovere di ricordarlo e di inserirlo a pieno titolo tra gli inventori valdostani.



(1) Le Mont-Blanc, 24 agosto 1894. (2) L’Echo du Val d’Aoste, 13 ottobre 1882. (3) L’Echo du Val d’Aoste, 29 aprile 1881. (4) L’Echo du Val d’Aoste, 23 dicembre 1878. (5) Catalogue officiel: liste des récompenses/Exposition universelle internationale de 1878, à Paris; Ministère de l’agriculture et du commerce, pp. 292 e 110. (6) Le Mont-Blanc, 24 agosto 1894. (7) Le Mont-Blanc, 24 agosto 1894. (8) L’Echo du Val d’Aoste, 3 luglio 1885. Bibliografia Italiana, parte seconda, Milano, 15 e 31 gennaio 1886, p. 4: - Società Toia e Vallet (Gaspare Toia e Emanuele Vallet), per la fabbricazione di cornici e inchiostri tipo-litografici). - Capitale L. 40,000; durata 10 anni. (9) L’Echo du Val d’Aoste, 23 dicembre 1878: Nous savons que l’honorable député de Verrès, M. le Marquis Compans, qui a daigné honorer de ses visites la maison et la fabrique de M. Vallet, a pris un vif intérêt à ses travaux et aux résultats qu’il a obtenus. Grâce à ce puissant patronage, nous espérons que M. Vallet aura sous peu l’honneur de voir ses produits figurer au Musée Industriel de Turin, où ils attireront l’attention de nos industriels et finiront par lui valoir, non-seulement des récompenses honorifiques, mais les profits que peuvent lui promettre des découvertes achetées au prix de longues études et de coûteuses expériences. (10) Le Duché d’Aoste, 21 novembre 1894. (11) Il Monitore Tecnico, 20 aprile 1896. (12) Italia Superiore. Sezione Prima. Piemonte. Provincia di Torino, p. 39: Inchiostro per Stampa (Fabbric.), (...) Toia e Vallet, corso Pincipe Oddone 47.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 12 maggio 2025
Un Cervino... poco italiano Nel marzo del 1939, il regime fascista inaugurava a Breuil-Cervinia la funivia più alta del mondo, che collegava Breuil al Plateau Rosà, a 3.500 metri di altitudine; nel 1936 il collegamento si fermava a Plan Maison (2.561 m). Per commemorare l’evento, furono anche preparate delle spille ricordo, con una medaglietta che riportava la dicitura: 4 marzo XVII - Umberto di Savoia - Inaugurazione della “più alta funivia del mondo” Breuil-Plateau Rosà metri 3500 . Tuttavia, in una curiosa ironia, la spilla raffigurava il Cervino non dal lato italiano, ma da quello svizzero di Zermatt. In un curioso controsenso, durante il regime fascista, così attento al nazionalismo e alla celebrazione dell’italianità, fu scelto paradossalmente di rappresentare la Gran Becca dalla prospettiva elvetica, anziché da quella italiana, per celebrare l’inaugurazione della funivia. Un dettaglio che non sfugge e che oggi ci fa un po’ sorridere, ricordandoci che, a volte, la storia sa essere ironica. Di chi fu la scelta? La spilletta manca del punzone-marchio del produttore. Si tratta di un piccolo aneddoto che, ancora una volta, mette in evidenza come, purtroppo, la silhoutte più riconosciuta al mondo sia quella svizzera piuttosto che italiana. Il ritardo con cui il versante valdostano fu scoperto dai turisti rispetto a quello vallesano dimostra quanto una prospettiva possa fare la differenza. Esempi di errori più recenti? Un francobollo realizzato nel 2008 raffigura il Cervino, ma l’immagine presenta un errore: la montagna è rappresentata dalla caratteristica prospettiva di Zermatt (Svizzera) anziché da Breuil-Cervinia (Valle d'Aosta, Italia)...
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 5 maggio 2025
Introduzione Le leggende, lo sanno tutti, non hanno un tempo definito. Nascono parallele a quello reale. Questa, che vi state accingendo a leggere, non arriva neppure da un tempo lontano, no. È stata inventata di sana pianta qualche settimana fa… ma fa già finta di essere antica. A volte basta un “non so che”, un dettaglio che, con un tocco di penna, si trasforma in una nuova storia. Le leggende nascono, vivono e respirano anche nei nostri giorni, pronte a sorprendere e a trasportarci in mondi inaspettati. La finestra di Aost a che ingannò il diavolo Un tempo, si racconta, il portone dell’attuale ex-Prevostura di Aosta era spesso soggetto a strani eventi. Voci bisbigliate, ombre che si affacciavano alla soglia, e soprattutto un vento gelido che soffiava all’improvviso, come se volesse entrare con prepotenza. Alcuni dicevano che fosse solo il freddo della Dora Baltea, che risaliva dai greti irregolari del fiume; altri, più devoti, mormoravano il nome che nessuno voleva pronunciare. Il prevosto, uomo colto e prudente, sapeva bene che certi spiriti amano entrare dove tutto è perfetto, squadrato, ordinato. “Il Maligno non sopporta l’asimmetria”, diceva spesso, “perché lui stesso è lo specchio rotto dell’ordine divino”. E come recita un antico detto: “il diavolo si nasconde nei dettagli”. Fu così che, un giorno, ordinò che sopra il grande portone non fosse posta la solita finestra rettangolare — come volevano certe regole architettoniche — bensì una finestra ovale: senza spigoli, né angoli netti, né linee dritte. Gli venne anche un’idea singolare: non concludere la base dell’ovale, ma spezzarla, facendola appoggiare quadrata sull’architrave del portone. “Che follia!” dissero in molti. Ma da quel giorno le strane presenze cessarono, e il vento smise di ululare contro la facciata, forzando gli interstizi per entrare. Da allora, la finestra ovale sorveglia ancora l’ingresso, custode silenziosa di ciò che non ha forma. Di ciò che impauriva. Uno dei tanti anelli che ci àncorano al cielo, tenendoci aggrappati al Bene, a Dio.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 14 aprile 2025
Il brodo delle undici Traduzione e rielaborazione narrativa a partire da un testo del poeta valdostano Alcide Bochet (1802-1859), pubblicata sul giornale Feuille d’annonces d’Aoste , 15 febbraio 1844. La zona oggi nota come Les Fourches era, un tempo, luogo di esecuzioni pubbliche. L'autore, in premessa, si esprimeva più o meno così: " In uno dei vostri ultimi numeri, avete domandato cosa significhi le bouillon d’onze heures . Vi do la spiegazione sotto forma di leggenda in versi, a proposito di un’esecuzione capitale alle forche patibolari, in un’epoca molto antica, ma di cui le persone più anziane si ricordano ancora". Il brodo delle undici In un tempo traballante tra il XVIII e il XIX secolo, le undici di un certo sabato furono un’ora che i cittadini di Aosta non dimenticarono presto. Era il momento in cui due condannati venivano condotti fuori dalle celle, tra le preghiere sussurrate e lo scalpiccio degli stivali sul selciato. La destinazione era Les Fourches, poco fuori la città di Aosta, nella zona precollinare che ancora oggi porta quel nome. Lì, da tempo immemore, sorgevano le forche patibolari, e anche quando il legno fu rimosso, l’eco della corda rimase nell’aria. Quel giorno, però, qualcosa cambiò. Un medico — giovane e ostinato — si fece largo tra i presenti. Con passo fermo e occhio acuto, chiese una sospensione dell’esecuzione. «Fatemi esaminare i condannati. Potrei salvarli… o almeno dare loro una cura prima della fine.» I boia risero. I giudici tacquero. Ma lo lasciarono passare. Tastò il polso dei due uomini, guardò le labbra, poi si accigliò. «Sono freddi. Ma non di morte, bensì di febbre. Nessuna sanguisuga, nessuna tisana. Non li guarisce l’acqua di Courmayeur, né quella di Saint-Vincent. Non serve cataplasma, né salasso. Serve solo una cosa…» Sollevò il cappello, come per dichiarare un responso oracolare: “Presto, un b rodo”, disse. Un brodo d’onze heures! Onore alla tua scienza! Il tuo brodo li rianima. Ha potuto guarirli, per dare loro la conoscenza prima della loro dipartita. Ecco! Caro dottore, piangono, piangono poiché il tuo rimedio è vano: c’est le bouillon d’onze heures ... Nota storica L’espressione “ bouillon d’onze heures ” era diffusa in Francia almeno dal XVIII secolo e indicava, nel linguaggio popolare, l’ultimo pasto simbolico prima della morte. Secondo alcune fonti, deriverebbe dalla consuetudine dei Fratelli della Carità di somministrare, tra le 22 e le 23, un brodo caldo ai malati più gravi durante le veglie notturne. In certi casi, quel brodo veniva riservato a chi non avrebbe superato la notte, o, secondo interpretazioni più oscure, poteva contenere sostanze tossiche, o rappresentare, per i più fragili, un mezzo inconsapevole e fatale. Nel Dictionnaire universel français et latin di Trévoux (1771), si legge: P rendre un bouillon de onze heures : mourir . (1) La leggenda aostana del 1844 riprende questo tema, e lo trasforma in una narrazione ironica e malinconica, dove il brodo non salva, ma dona l’ultima, effimera conoscenza... (1) P. Bourrinet, C. Guyotjeannin, “Bouillon d’onze heures” , in Revue d’Histoire de la Pharmacie , 2005, n° 346, pp. 295–296.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 10 aprile 2025
Essere guida alpina in Valle d’Aosta: che fatica, nel 1855! Nel 1855, dodici uomini di Courmayeur si rivolsero al Consiglio provinciale di Aosta per ottenere, per dieci anni, la concessione esclusiva di fare da guide alpine ai viaggiatori desiderosi di salire al Monte Bianco da Courmayeur, lungo la via da loro scoperta nell’estate di quell’anno. Un evento destinato ad accrescere il flusso turistico nella zona, considerando che dal versante valdostano la vetta non era ancora stata raggiunta. (1) La richiesta fu discussa e accolta dal Consiglio aostano, poi trasmessa a quello Divisionale, (2) che la esaminò il 6 dicembre. Qualche consigliere, però, dichiarò che il Consiglio di Divisione doveva occuparsi degli interessi generali e non dei privilegi da concedere ai singoli; anzi, che tutti i privilegi andassero aboliti. Un giornale valdostano sottolineò come, nel caso in questione, si confondessero quei cosiddetti privilèges con qualcosa di negativo, di immeritato. In realtà, quella richiesta non era altro che il riconoscimento di una professionalità, paragonabile a un brevetto d’invenzione. (3) “Ora - annotava il giornale - non vediamo perché questi audaci e intrepidi esploratori della montagna, che, dopo ripetuti tentativi durati diversi anni, durante i quali tante volte hanno messo in gioco la loro vita, dopo sacrifici di tempo e denaro, e che hanno finalmente raggiunto il loro obiettivo scoprendo un passaggio che facilita e rende meno pericolosa la salita al Monte Bianco, ne pourraient pas s’assurer les profits qu’ils ont droit de retirer de leurs persévérantes recherches, et obtenir un privilège de guides, comme un industriel ou un mécanicien obtient un brevet d’invention, et un chercheur de minière, un droit d’exploitation? ”. La richiesta di Courmayeur fu rigettata, e il Consiglio approvò una risoluzione con cui si chiedeva al Governo di predisporre un preciso regolamento per le guide alpine. (4) Malgrado quelle difficoltà, è bene sapere che le guide di Courmayeur costituirono la Prima Società delle Guide costituitasi in Italia e seconda al mondo e che tale sodalizio è stata una delle prime strutture a promuovere e far conoscere la montagna ed in particolare l’alpinismo. Infatti, nel 1850, i precursori di un mestiere così nobile, si riunirono in società con lo scopo di concretizzare, mediante una struttura fissa e prestigiosa, un mestiere che era diventato il perno del turismo montano . (5) Una delle tante eccellenze e professionalità valdostane... che, come spesso accade, furono riconosciute solo dopo essere state ostacolate. Perché in fondo, quello che gli uomini di Courmayeur chiedevano non era un privilegio, ma il semplice diritto di esercitare con dignità un mestiere conquistato con fatica, rischio e conoscenza del territorio. A volte, pare che il vero privilegio sia riuscire a far valere la propria esperienza, senza doverla difendere da chi non la comprende. (1) A far data dal 1784 Jacques Bamat, assieme alla guida di Pré-Saint-Didier Jean-Laurent Jordaney, fece alcuni tentativi ricognitivi dalla zona di Chamonix, suo paese natale. Balmat fu il primo, insieme al concittadino Michel-Gabriel Paccard, a raggiungere la vetta l’8 agosto 1786. (2) In quegli anni la Valle d’Aosta formava una provincia piemontese chiamata Aosta. Le province di Aosta e di Ivrea costituivano insieme la Divisione d’Ivrea. (3) Feuille d’Aoste , 13 dicembre 1855. (4) Il 1° maggio 1852 il Senato aveva già approvato un regolamento per le guide di Chamonix. L’Indépendant , 10 maggio 1852. (5) http://www.guidecourmayeur.com/storia.php
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 7 aprile 2025
L’abito talare... sulle spalle Tra le varie storie, i cosiddetti “si dice”, legate alla memoria dell’ abbé Amé Gorret (1836-1907), ce n’è una, comprovata anche da alcune fotografie, secondo cui gli piacesse spesso indossare vestiti borghesi. L’abito talare, forse anche considerata la sua stazza, probabilmente non gli era sempre congeniale. Ma ecco che un bel giorno viene scoperto ad Aosta, in giubba e calzoni... dal vescovo in persona. Senza scomporsi, dinanzi al viso stupefatto e interrogativo del suo capo: “Chiedo perdono”, disse Gorret, “ma io non manco alla mia parola. Ecco, io “porto” la veste talare”. E ciò dicendo, gliela mostrava piegata e poggiata sulle robuste spalle a mo’ soprabito . (1) Effettivamente aveva promesso di “portare” la veste come impostogli dalla Curia... Era un po’ il suo modo spregiudicato di ribellarsi alle convenzioni che cercava di rispettare, ma che spesso limitavano troppo il suo spirito libero, al quale riteneva di dover essere indulgente su molte cose. Aneddoto pubblicato in: M. Caniggia Nicolotti, Sacerdoti saggi, sagaci e spiritosi. Preti valdostani di un tempo (2024) Foto tratta da: E. Reynaud, Aosta et sa Vallée , p. 56. (1) L. Vaccari, L’abate Amato Gorret , in Bollettino del Club Alpino Italiano , Vol. XXXIX, n. 72, 1908, p. 5.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 31 marzo 2025
La straordinaria invenzione di una funivia medievale valdostana Un’importante scoperta d’archivio potrebbe riscrivere la storia dell’ingegneria alpina: un antico manoscritto, ritrovato negli archivi della Biblioteca Claustrale di Aosta, testimonierebbe che la prima idea di una funivia risale al XIV secolo e non all’epoca moderna. L’inventore? Uno sconosciuto parroco valdostano, il visionario abbé Aimon de Silvenoire . Chi era l’ abbé Aimon? Nato intorno al 1371 nel piccolo villaggio di La-Rochère (oggi abbandonato, situato lungo la displuviale posta al confine tra Saint-Vincent e Arnad), Aimon entrò giovanissimo nell’ordine benedettino e poi si stabilì nella Chiesa parrocchiale di Sant’Orso di Emarèse, dove si distinse per le sue conoscenze in architettura e meccanica. Profondamente affascinato dalle sfide dell’ambiente alpino, si pose un obiettivo ambizioso: trovare un modo per superare i valichi di montagna senza dover camminare per giorni. Nell’estate del 1410 , Aimon elaborò un sistema di trasporto aereo che chiamò “ Senterius aërostaticus ” (sentiero aerostatico), descritto in un codice miniato recentemente ritrovato: “ et par grandis rotes et cordes de canapa, tirate par de besties de somas et par lo ventus, nos podremos elevar cosas et hommines in cima delli montis, ki volant quasi versum lo cielum ”. Il progetto prevedeva una serie di piattaforme sospese, sorrette da funi di canapa e movimentate da un ingegnoso sistema di carrucole e contrappesi. Gli appunti descrivono anche un rudimentale freno a legno e un sistema di stabilizzazione con vele in pelle di capra. Un disegno schematico mostra persino un carrello appeso a una fune, anticipando di secoli il principio delle moderne funivie. Gli studiosi stanno ora esaminando se l’abbé Aimon avesse avuto contatti con Leonardo da Vinci , il quale, secondo alcune fonti, avrebbe citato nei suoi taccuini un certo Eremīta Vallis Augustæ (Eremita Valdostano) come ispiratore di alcuni suoi studi sulle macchine da sollevamento. Perché la sua invenzione fu dimenticata? La storia narra che il vescovo di Aosta, Ego Absentius (1410-1411) impressionato dal progetto ma timoroso delle sue implicazioni, abbia dichiarato il “ Senterius aërostaticus ” un’opera contro Dio, vietandone la costruzione e facendo bruciare i disegni originali. Tuttavia, una copia del manoscritto sarebbe stata salvata e conservata segretamente da alcuni monaci dissidenti, fino al suo ritrovamento il 1’ aprile 2025. E oggi? L’interesse per la scoperta ha però superato i confini valdostani: negli USA alcuni gruppi di ricerca stanno studiando il modello medievale per un futuristico progetto di funivia che unirebbe tra loro il Canale di Panama, gli Stati Uniti, il Canada e la Groenlandia . Le autorità stanno invece valutando se riabilitare post mortem l’ abbé Aimon, in quanto il suo sistema di trasporto alpino non offenderebbe più l’Altissimo; al massimo - e per i più scettici e increduli - forse oggi qualcuno lo vedrebbe come un pesce d’aprile.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 27 marzo 2025
La statua che si muoveva ad Aosta Lungo la navata meridionale della Cattedrale di Aosta, in alto, c’è una statua. Si tratta di un altorilievo, in gesso e legno policromo risalente alla fine del Medioevo. È priva di mani, ma non di sguardo. Ritrae il beato Bonifacio di Valperga (seconda metà del XII secolo-1243), vescovo mite e sapiente, che nel XIII secolo guidò con dolcezza e tenacia la Chiesa valdostana. Oggi in pochi vi si soffermano. Anche perché il manufatto si trova ad una certa altezza da terra. Ma un tempo, quella statua… si muoveva. Non come nelle storie d’ombra. No. Il beato si muoveva per nostalgia. Ogni notte, quando le navate dormivano e il respiro deIle cose si faceva sottile, si racconta che la statua si staccasse dal suo posto. Non per fuggire. Ma per ritrovare. Passava davanti all’altare maggiore, si fermava là dove sorgeva l’antico ambone, indugiava vicino alla cripta, come un uomo che torna a visitare la propria casa, stanza per stanza. Al mattino, chi conosceva la statua a memoria diceva di notare leggeri spostamenti. Un piede appena più avanti. La grande veste chiara che lo avvolgeva, increspata in pieghe mutevoli. Il volto inclinato in un’altra direzione. E qualche volta, una scia di polvere sottile, minuscoli calcinacci, come se la statua nel muoversi, si fosse scontrata contro i secoli. All’inizio, si taceva. Poi le voci si fecero più insistenti. C’era chi si spaventava, chi parlava di spirito irrequieto. E così si decise di trovare un compromesso. Si rimossero le mani della statua, con delicatezza. Non come punizione, ma come accordo: il beato sarebbe rimasto tra le sue mura amate, ma fermo, non trovando modo di appigliarsi per scendere e poi per risalire al suo posto. Pare che egli accettò, senza dolore. Perché sapeva che anche l’immobilità può custodire presenza. E per mitigare la sua nostalgia, fu concesso un dono ulteriore: nella nuova facciata della Cattedrale, eretta più tardi, fu dipinta la sua immagine, appena fuori dal portone, sulla sinistra per chi entra, affinché potesse vedere il mondo passare, il tempo scorrere, la vita continuare. Là dove si può ammirare ancora oggi. Così Bonifacio si fece presenza silenziosa, dentro e fuori. Oggi, nessuno più lo vede muoversi. Ma in certe sere, quando l’ultima messa svuota la Cattedrale e il chiostro sussurra, qualcuno giura di avvertire un profumo sottile - come d’incenso e neve. E se ci si ferma davanti a lui, in silenzio, si ha l’impressione che la sua testa si inclini appena, come a dire: “Sì, ogni tanto torno qui. E veglio. Veglio sulla Cattedrale”. Mauro Caniggia Nicolotti, 20 25
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 24 marzo 2025
Il mistero del bambino di Villeneuve Il 17 aprile 1892, il periodico svizzero La Sentinelle riportava la seguente notizia: “Ieri, verso le tre del mattino, un impiegato della stazione di Losanna, che ha voluto restare anonimo, aveva accompagnato in un bar un grazioso bambino ( un joli petit gamin ) per offrirgli un bicchiere di vino e una brioche. Il piccolo indossava un cappotto di velluto grigio, tipico degli operai italiani. All’inizio non osava parlare: la sua timidezza e forse anche la difficoltà di esprimersi gli permisero appena di dire che veniva da Villeneuve. Stavamo per telegrafare alle autorità di quella località quando il bambino estrasse un biglietto ferroviario di terza classe, valido per una corsa da Martigny a Parigi, accompagnato da un indirizzo e da un estratto di nascita del Comune di Villeneuve, Valle d’Aosta. È quindi probabile che l’infortuné voyageur abbia attraversato il Gran San Bernardo per giungere fino alla capitale del Canton Vaud. Il petit italien si rifiutava di bere e mangiare; a ogni tentativo di porgli qualche domanda, rispondeva solo con una nuova effusione di lacrime. L’indirizzo che portava con sé lasciava facilmente supporre che il piccolo Victor, questo il suo nome, fosse stato oublié volontairement ”… Di lui non si conoscono altre notizie. Ma, al di là di tutto, come si fa ad offrire a un bambino un bicchiere di vino…? Altri tempi, mi si dirà...
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 20 marzo 2025
Una fabbrica di munizioni ad Aosta? Un’eco dal passato Oggi, il mondo assiste a nuove tensioni internazionali, con una corsa agli armamenti che sembra ripetersi come un ciclo ineluttabile della storia. Guerre e conflitti alimentano il dibattito sugli investimenti nel settore bellico, sollevando interrogativi sulla nuova geopolitica, sulle strategie politiche e sulle implicazioni economiche. Ma simili discussioni non sono certo nuove, anzi, sono un refrain che l’umanità conosce bene. Uno dei tanti esempi, forse sconosciuto ai più o misconosciuto, è il caso della Valle d’Aosta. Sul finire del XIX secolo, Aosta veniva menzionata come possibile sede di un impianto per la produzione di munizioni da guerra. Nel giugno del 1890, diversi giornali riportavano la notizia di un progetto per costruire una fabbrica di munizioni nei dintorni di Aosta. La Sentinelle , giornale elvetico, nell’edizione dell’8 giugno, ne dava notizia prima ancora dei giornali valdostani; probabilmente riprendendo l’informazione dal periodico italiano Corriere Nazionale del giorno precedente. Il giornale spiegava che l’iniziativa sarebbe stata sostenuta da capitalisti italiani in società con case tedesche già attive in questo settore a Dresda, Francoforte e Strasburgo. Le Valdôtain , nell’edizione dell’11 giugno, aggiungeva dettagli sulla voce che circolava a Roma, auspicando: Nous nous souhaitons que cette nouvelle ait un fondement de vérité et que cette fabrique ne demeure pas toujours à l’état de pieux désir (“Ci auguriamo che questa notizia abbia un fondamento di verità e che questa fabbrica non resti sempre allo stato di pio desiderio”). Il tono è chiaro: vi era una certa speranza che l’iniziativa si concretizzasse, forse anche per i benefici economici che ne sarebbero derivati. Infine, sempre l’11 giugno, anche il giornale Feuille d’Aoste confermava tutte le indiscrezioni. Questa fabbrica, se fosse stata costruita, avrebbe potuto cambiare il destino industriale della Valle d’Aosta, proiettandola nel panorama della produzione bellica europea. Ma cosa ne fu di questo progetto? Le cronache successive non ne parlano più, segno che l’iniziativa sfumò prima ancora di prendere forma. Forse, mutata e adattata alle tecnologie di armi più sofisticate nel tempo, oggi quella fabbrica non sarebbe più un vanto, e quel “pio desiderio” auspicato quasi un secolo fa apparirebbe sotto una luce molto diversa. I nostri valori fortunatamente sono cambiati..., purtroppo le idee bellicose di taluni no.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 17 marzo 2025
Laetitia Nourissat, investigatrice valdostana Parigi, domenica 16 maggio 1937, fine pomeriggio. Metropolitana. Una donna elegante salì su un vagone vuoto di prima classe, appena tornata dalla visita a suo fratello. Il mezzo partì, e fra la Porte de Charenton e la Porte Dorée, in meno di due minuti di viaggio, la donna fu pugnalata al collo. Trasportata all’Hôpital Saint-Antoine, spirò poco dopo senza riuscire a dire nulla. La vittima era la vedova Toureaux, Yolande Laetitia Nourissat, originaria di Oyace, in Valle d’Aosta, nata l’11 settembre 1907, ma residente nella capitale francese. Suo marito Jules, sposato segretamente nel 1930, era morto nel 1935. Il motivo di questo efferato delitto rimase oscuro. Inizialmente, la polizia considerò l’ipotesi di un sadico o di un folle. (1) La vita della signora Toureaux fu attentamente esaminata, ma non fu possibile trovare una spiegazione chiara. La donna sembrava condurre una vita appartata e discreta nella Parigi fébrile de joies factices . (2) La polizia avviò un’ampia indagine, interrogando migliaia di persone, ascoltando 56 testimoni e ricevendo migliaia di lettere anonime, quasi tutte inutili per risolvere il caso intricato. La stampa, nel suo solito stile sensazionalista, avanzò ipotesi stravaganti che spesso venivano smentite poco dopo. Un giornale francese, pochi giorni dopo il crimine, sostenne che Laetitia Toureaux conduceva una vita doppia. Dotata di una sensualità e di un temperamento passionale, la donna si era dedicata alle indagini poliziesche. Tra il 1935 e il 1936, era stata assunta da un ex-agente della Sicurezza Nazionale per lavorare in un’agenzia investigativa, l’ Agence Rouff , entrando così in contatto con ispettori e funzionari di polizia. Secondo il giornale, il direttore dell’agenzia la fece assumere successivamente come segretaria in una fabbrica a Saint-Ouen-sur-Seine (comune a nord di Parigi), dove avrebbe potuto infiltrarsi per ragioni non del tutto chiare. Il giornale ipotizzò che l’indagine sul crimine della Porte Dorée avesse toccato interessi potenti e forze oscure in azione. (3) Tra le diverse testimonianze raccolte da quel periodico, una affermava che Laetitia era un’ottima investigatrice: dans ce métier délicat, elle rendait des points à des detectives-hommes , assicurava un ispettore della polizia giudiziaria. La stampa continuò a occuparsi del caso nei successivi anni, pubblicando varie informazioni, tra cui l’appartenenza di Laetitia alla popolare Ligue républicaine du Bien Public ; secondo L’Aurore del 24 agosto 1945, invece, la donna apparteneva all’organizzazione segreta Cagoule (4) e siccome était bavarde attirò a sé le ire di qualcuno: la Cagoule ne lui pardonna pas ses relations avec le 2e Bureau . (5) Un giornale valdostano, dopo venti giorni dal fatto, dichiarò: nous sommes encore sous la pénible impression de tout ce qui a été dit et écrit sur ce fait lamentable et qui est resté mystérieux et indéchiffrable . (6) Si scoprì che qualche giorno prima del delitto, Laetitia era sfuggita ad un tentativo di aggressione. Al capo stazione, proprio la sera in cui sarebbe morta, la donna aveva raccontato quel fatto. (7) Il giorno della sua morte, Laetitia cambiò radicalmente il suo aspetto, abbandonando i colori scuri e la veletta per indossare un vestito verde e un cappello bianco, con i capelli passati dal colore bruno naturale al biondo. Un giornale francese suggerì che questo cambiamento equivalesse a un travestimento completo. (8) La stampa avanzò due possibili cause dell’omicidio: la prima suggeriva che Laetitia potesse essere stata punita da criminali legati ai locali da ballo che frequentava e dove ogni tanto lavorava per aver parlato troppo, mentre la seconda ipotizzava che potesse essere stata vittima di un’organizzazione segreta con chiare tendenze politiche, poiché conosceva troppi segreti che avrebbe poi rivelato alla Sicurezza Nazionale francese. (9) Nel 1948, undici anni dopo i fatti, un uomo si dichiarò colpevole, ma si scoprì che era affetto da disturbi mentali. Venticinque anni dopo, nel 1962, un altro uomo si autoaccusò, ma l’indagine non fu aperta a causa della prescrizione del reato. Tale segnalazione, molto dettagliata e anonima, spiegava il crimine come passionale e spinto dalla gelosia. Fin dall’inizio, il giornale Paris-soir espose il caso Toureaux come un enigma che suscitava interesse e discussione. L’affare rimase intricato, enigmatico, con ogni nuova rivelazione che sembrava complicare ulteriormente il mistero. In più, il periodico si espresse in questi termini, che prendo a prestito poiché sembrano quasi profetici: Quoi qu’il en soit, l’affaire Toureaux est l’objet de toutes les conversations. Les plus grands écrivains, déjà, et parmi ceux qui semblaient pourtant les plus éloignés des faits divers, se sont penchés sur ce mystère que chaque clarté nouvelle, par un curieux paradoxe, semble obscurcir . (10) Un caso intricato, enigmatico, dunque. Qualcuno, ancora anni fa, definì Madame Toureaux una Mata Hari valdostana. (11) Immagine di copertina: Disegno giornale, La Presse , 4 aprile 1949, Illustration de Clauss . (1) Ce soir , 22 maggio 1937. (2) L’Echo de la Vallée d’Aoste , 4 giugno 1937. (3) L’enquête sur le crime de la porte Dorée ne fait véritablement que commencer. Elle touche à des intérêts puissants, à des forces obscures. et agissantes . Le Radical de Marseille , 22 maggio 1937. (4) Cagoule (cioè cappuccio) era il nome con cui veniva riconosciuta la Organisation secrète d’action révolutionnaire nationale , organizzazione armata di estrema destra con orientamento fascista e anticomunista, attiva in Francia negli anni Trenta. (5) Dal 1871 al 1940, il Deuxième Bureau francese si occupava di raccogliere informazioni militari nemiche. (6) L’Echo de la Vallée d’Aoste , 4 giugno 1937. (7) En tout cas, j’ai eu peur. Mais maintenant je prends mon pépin pour me défendre. Figurez-vous que j’ai été attaquée, l’autre soir, en sortant du métro. Si je n’avais pas pu me débarrasser de mon agresseur je vous aurais peut-être appelé au secours . Le Radical de Marseille , 22 maggio 1937. (8) Un tel changement, assurent les spécialistes équivaut à un déguisement complet . La Presse , 4 aprile 1949. (9) La prima poteva considerare la vittima comme une “donneuse” par des “durs” qui fréquentaient les bals musette où elle était employée, s’était vu appliquer sans pitié la loi du milieu. Pour avoir trop bavardé, elle avait été condamnée au silence eternel . La seconda, invece, veniva descritta così: la Valdôtaine avait été la victime d’une organisation secrète à tendances politiques marquées. Un tueur avait été désigné pour l’abattre; elle connaissait trop de secrets . Segreti che la donna avrebbe poi rivelato alla Sicurezza Nazionale francese. Le Radical de Marseille , 22 maggio 1937. (10) Edizione del 23 maggio 1937. (11) Così fu definita Laetitia Toureaux da Pierre Desgraupes alla radio francese. Le Peuple Valdôtain , 24 luglio 1981.
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