Prossima fermata! Aosta, tra micro-identità e sapori
Mauro Caniggia Nicolotti • 7 luglio 2025
Prossima fermata!
Un viaggio a puntate nella città di Aosta che potrebbe essere
Non perché questi non siano importanti, al contrario, ma perché vorrei partire da ciò che per me è desiderabile, prima ancora che realizzabile.
Si tratta solo di spunti, interi o parziali, che provano a suggerire una direzione diversa per la città attuale, una possibilità, un nuovo modo di guardare Aosta. In un tempo in cui è facile arrendersi al “non si può”, qui proviamo a dire: “e se si potesse?”
Perché anche Aosta, piccola e bellissima, ha diritto a una visione. E il futuro — a volte — comincia anche da una semplice idea.
Puntata 10 – Aosta, tra micro-identità e sapori
Mi piacerebbe che Aosta tornasse a riconoscersi nei suoi quartieri.
Non come parti staccate o divisioni di una città, ma come anime diverse di un’unica comunità.
Oggi Aosta si presenta – giustamente – come una città unitaria, compatta, raccolta intorno al suo centro storico e nei suoi spazi moderni.
Ma sotto questa superficie vive una stratificazione di memorie, di zone urbane cresciute nel tempo, ciascuna con la propria voce: la Cité, il Borgo di Sant’Orso, in particolar modo.
Nel Medioevo la città era fatta di terzieri e di sobborghi.
Piccoli mondi comunicanti, ciascuno con la sua identità e storia.
Molte città d’Europa – da Lione a Lisbona – hanno saputo valorizzare queste micro-identità urbane, trasformandole non solo in attrazione turistica, ma in motore culturale: itinerari, eventi, label
riconoscibili, tradizioni culinarie e artigianali recuperate o magari reinventate con un tocco creativo.
E se anche Aosta tornasse a raccontarsi per quartieri storici?
Non per dividere, ma per moltiplicare i punti di vista.
Immaginiamo, per esempio, che l’antica Cité
– un tempo corrispondente a gran parte dell’area interna alla cinta romana – venga riconosciuta come una zona con una propria identità visiva, un’etichetta urbana, anche oggi che i suoi confini si sono naturalmente allargati.
E lo stesso per il Borgo di Sant’Orso, che conserva un cuore antico e popolare, ma che potrebbe diventare il perno di un racconto rinnovato, esteso oltre i suoi limiti storici.
Immaginiamo questi due polmoni culturali, storici e commerciali della città che tornano a parlare con la loro voce.
E immaginiamo che quella voce si traduca anche in prodotti. Non solo gadget (tutti da inventare), ma cibi.
Sì, perché anche i cibi possono essere una riscoperta.
Non importa se non sono documentati o se nascono da una ricostruzione poetica.
Ogni città ha diritto alla propria mitologia gustativa.
Un piatto del Borgo, una merenda della Cité, un dolce che ricordi un personaggio.
Creazioni che diventano simbolo, che raccontano luoghi ma parlano a tutta la città.
E allora immaginiamo un Pain de Napoléon, ispirato a un vecchio aneddoto secondo cui un panettiere di Saint-Étienne, durante l’occupazione francese, aveva preparato un pane tanto buono da meritarsi il permesso di usare il nome di Bonaparte come insegna.
Un pane da reinventare, magari a forma di feluca, fragrante e scuro, come se avesse viaggiato nel tempo.
E ancora: un biscotto di Sant’Orso, magari a forma di uccellini, in memoria di quelli che si posavano sulle sue spalle.
E il ritorno di un dolce di nicchia a livello commerciale, il Gâteau des Rois, reinterpretato come simbolo di un’epoca e dell'Epifania: una nuova Couronna di Rèy, potremmo ribattezzarla.
E a Manzetti, genio misconosciuto, non potremmo forse dedicare un cornetto-croissant, la Cornetta di Aosta?
Una via di mezzo tra un cannolo e un croissant, con guarnizione esterna di crema pasticcera ramata che ricordi i fili del telefono, e un impasto che suoni come invenzione.
E poi, volendo, c’è anche l’esperienza delle Lacrime di San Lorenzo, da me ideate nel 2007 per le “Notti di San Lorenzo”, e realizzate da alcuni pasticceri valdostani: un biscotto con farina di castagne e confettura di fragole, fragile e poetico, come un desiderio espresso sotto le stelle.
Un dolce che potrebbe ancora essere rilanciato come una delle specialità del Borgo di Sant’Orso, da legare alla parrocchia dedicata a San Lorenzo (10 agosto).
E qui si apre un’altra possibilità: quella delle feste patronali.
Aosta ha due grandi poli spirituali e civici: da una parte Sant’Orso con la sua chiesa e la memoria di San Lorenzo
(10 agosto), dall’altra la Cattedrale con la festa dell’Assunzione, il 15 agosto.
Oggi queste ricorrenze passano inosservate, assorbite dal tempo estivo o da altri eventi, anche importanti.
E se invece tornassero a vivere?
Una settimana diffusa, tra il 10 e il 15 agosto, potrebbe legare la Cité
e il Borgo
in un’unica festa, coinvolgendo le parrocchie, i commercianti.
So benissimo che si aggiungerebbe al già tanto che si organizza. Ma quando è festa...
Concerti, fiaccolate, racconti, visite, momenti per i residenti e per i turisti.
Una nuova forma di festa patronale che sappia parlare il linguaggio del presente.
Ecco.
Non si tratta solo di creare nuove ricette o appuntamenti.
Si tratta di restituire voce e forma a ciò che Aosta potrebbe essere.
Perché anche le città – vecchie e nuove, come chi le abita – hanno bisogno di ritrovare i propri racconti. Perché è lì, nella memoria condivisa, che si intrecciano le radici e i passi di chi arriva.
L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa e presenta quello che potrebbe essere un biscotto dedicato a Sant'Orso.

L’abbé Gorret, la “spia italiana” Nel gennaio del 1895 il giornale Le Mont-Blanc (1) pubblicava una lettera singolare arrivata da St-Martin de Clelles, piccolo villaggio francese situtato nei dintorni di Grenobles. Il mittente era un abbonato, che raccontava con calore il passaggio in quelle terre dell’ abbé Amé Gorret. Chi era? Un prete valdostano dalla tempra inconfondibile: Amé Gorret (1836-1907), l ’ ours de la montagne , alpinista, scrittore, uomo dalle maniere brusche e dal cuore generoso. Uno che si definiva domicilié en route , perché i vescovi lo spostavano di continuo, incapaci di incasellarlo. Ebbene, i suoi esordi a Clelles non furono facili. Nos gros bonnets, la mairie compris, l’appelaient l’espion italien , scrive il testimone. Lo guardavano con sospetto, quasi fosse una spia mandata oltreconfine in anni in cui i rapporti tra Francia e Italia erano tutto fuorché sereni. Ma il reverendo – ce colosse de Curé – aveva un dono: la franchezza. Con la sua voce tonante, i modi popolari, la statura erculea e il cuore grande, conquistò ben presto tutti. In poco tempo – racconta sempre la lettera – riportò all’ovile beaucoup de brebis égarées . Le madri lo chiamavano la Providence . “Quante benedizioni si raccoglievano al suo passaggio! E bisognava vederlo mentre si chinava, facendosi piccolo piccolo, per porgere la sua larga mano, dentro la quale i bambini nascondevano tutta intera la loro manina paffuta”. Il cronista insiste: Combien d’enfants agonisants n’a-t-il pas rendu à la vie? “Gli venivano affidati i piccoli malati e, con pochi rimedi che aveva a disposizione, egli li restituiva dopo poche ore pieni di vita e di salute». Dietro la penna di quell’abbonato che si firmava T.G. si intravede la gratitudine semplice di un paese che aveva prima sospettato e poi amato quel prete singolare, tanto da concludere che il suo nome y sera à jamais béni. Il suo carattere caustico, la sua ironia, il suo amore per la montagna e la libertà lo resero una figura quasi leggendaria. Dall’amicizia con Vittorio Emanuele II alle polemiche sulla caccia o sulla stampa valdostana, fino alle avventure al Cervino, ovunque andasse seminava aneddoti, risate, e qualche scandalo. (2) Eppure, a Clelles come ad Ayas, ciò che restava era soprattutto il ricordo di una voce franca e di una mano larga, capace di sollevare tanto i corpi quanto gli spiriti. Son imposante taille herculéenne lui attirait toutes les sympathies … L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) Edizione del 25 gennaio. (2) M. Caniggia Nicolotti, Sacerdoti saggi, sagaci e spiritosi. Preti valdostani di un tempo , pp. 47-68.

La tratta dei bianchi in Valle d’Aosta C’è una memoria che riaffiora sfogliando i vecchi giornali ingialliti della Valle d’Aosta, un’eco lontana che ci parla di bambini e adolescenti strappati alle loro case. Era chiamata “la tratta dei bianchi”: una ferita che attraversa le pagine tra Ottocento e Novecento. Nel marzo del 1872 L’Écho du Val d’Aoste racconta la vicenda di un bambino torinese di appena sei anni, uno spazzacamino, brutalmente trattato dal proprio padrone. (1) Non era un caso isolato: i ramoneurs valdostani partivano ogni inverno verso le grandi città, portando con sé la miseria delle famiglie, e più d’uno aveva subito maltrattamenti. Il giornale puntava il dito contro quella forma di sfruttamento che già allora ricordava da vicino l’infame commercio della tratta. Passano quasi trent’anni e la cronaca si fa ancora più cupa. Il 12 maggio 1900 due individui vengono arrestati ad Aosta: stavano per salire sul treno con una dozzina di bambini tra i nove e i sedici anni, accaparés de leurs parents . Il destino era segnato: alcuni sarebbero diventati spazzacamini, altri sarebbero finiti in una vetreria di Manage, in Belgio, a contatto con il vetro fuso. Il giornale denunciava la leggerezza dei genitori che, per un gruzzolo di monete, avevano affidato i figli a sconosciuti pur di sfuggire alla miseria. (2) Il Tribunale di Aosta, chiamato a giudicare, assolse gli imputati. Ma la Corte d’Appello di Torino riformò quel verdetto con una condanna: Léon Chabeau, impiegato della vetreria, e Léon Grand, capo ramoneur , furono riconosciuti colpevoli di reclutamento illegale. I due avevano stipulato veri e propri contratti con i genitori, promettendo salari dai 50 ai 200 franchi l’anno. La pena fu di 25 giorni di reclusione e 416 lire di ammenda; Grand venne giudicato in contumacia. In quei giorni, un’altra condanna colpì un valdostano: aveva tentato di far espatriare un quindicenne e un diciottenne per portarli a lavorare in una cristalleria. Assolto in prima istanza, fu poi condannato a due mesi di prigione e a 1.000 lire di ammenda. (3) Il 31 maggio 1901, dalle colonne di Jacques Bonhomme , comparve un titolo eloquente: Un infâme trafic de chair humaine . Vi si raccontava dell’impegno di un comitato piemontese di filantropi che cercava di censire i casi di emigrazione clandestina di giovani italiani verso Francia e Belgio. Talvolta, annotava il giornale, queste partenze avvenivano con la connivenza di qualche funzionario pubblico o amministratore locale, bollati come immondes vampires, avides d’or et de sang . La cronaca giornalistica del 1905 ci porta oltre i confini regionali. Il Tribunale di Cherbourg, in Normandia, condannò due “reclutatori” a tre anni di prigione e a 5000 franchi di ammenda per aver assoldato quattro giovani ragazze tra i 18 e i 20 anni da far emigrare a San Francisco. Dovevano essere impiegate come cameriere con salari di 100 franchi al mese: la polizia scoprì invece che erano destinate a una casa di prostituzione. (4) Non si parlava più soltanto di bambini mandati a lavorare lontano, ma di giovani ragazze ingannate da procacciatori francesi e avviate alla prostituzione. E a questo inganno non sfuggirono alcune valdostane. (5) Cosiddetti “industriali francesi” percorrevano la Valle d’Aosta, adescando giovani ragazze per portarle in Francia: là, invece del lavoro in grandi manifatture promesso, trovavano il ricatto e la minaccia della prostituzione. “Dunque, padri e madri di famiglia, siate in guardia contro certains agents d’émigration ”, ammoniva un giornale valdostano. Oggi, da noi, la “tratta dei bianchi” è soltanto un brutto ricordo. Ma non ovunque è così: in troppi angoli del mondo, la miseria continua a vendere i suoi figli, e la dignità umana resta ancora merce di scambio. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) L’Echo du Val d’Aoste , 29 marzo 1872. (2) Le Duché d’Aoste , 16 maggio 1900. (3) Le Duché d’Aoste , 12 settembre 1900. (4) L’Union Valdôtaine , 18 maggio 1905. (5) L’Union Valdôtaine , 20 novembre 1905.

Una parrocchia valdostana in Brasil e Nel 1877 alcune famiglie valdostane si stabilirono nello Stato del Paraná, in Brasile, nella zona di Campo Comprido–Mossunguê, a pochi chilometri dal centro di Curitiba. Tra loro si ricordano Pierre Nicco (del fu Jean), Grat Nicco di Donnas, Juglair e Martignèn. La colonia si sviluppò rapidamente. La fede di quei valdostani, devoti al patrono della Valle d’Aosta, fece sì che già nel 1887 giungesse a Curitiba un’immagine di San Grato, fatto che precedette di poco la costruzione di una cappella nel cuore della colonia. Questa, edificata nel 1889 in legno semplice secondo lo stile rurale, fu intitolata ai santi Grato e Orso, figure care alla devozione valdostana. Nel frattempo gli emigrati riuscirono a trarre buoni frutti dal lavoro agricolo, al punto che nel 1923 il giornale valdostano Le Duché d’Aoste descriveva la colonia come florissa nt e , prospera, e sottolineava che quelle famiglie avevano fait fortune . Con l’espansione urbana, Campo Comprido e Mossunguê divennero quartieri della città di Curitiba, e l’urbanizzazione si rifletté anche nell’odonomastica. La cappella sorse in Rua Francisco Juglair, cognome di uno dei valdostani che diedero lustro alla colonia. Nel 1915 fu trasferita in Rua Grã Nicco, dove ancora oggi accoglie i fedeli. In quell’occasione l’immagine di San Grato, portata a Curitiba nel 1887, trovò la sua collocazione definitiva. Dal 2000 l’edificio è parrocchia autonoma: la Paróquia São Grato , tuttora l’unica in Brasile a portare questo titolo. Ogni anno, il 15 settembre, la comunità di Mossunguê rinnova la tradizione celebrando il patrono San Grato, come fecero i pionieri valdostani quasi 150 anni fa. (1) Il quartiere conserva l’impronta valdostana anche nei nomi delle sue vie. Oltre a Rua Francisco Juglair e Rua Grã Nicco, si trovano strade dedicate a membri della famiglia Nicco: João Nicco, Pedro Nicco, Anselmo Nicco, Dominigas Nicco, José Nicco, Amadeu Nicco. Secondo la stampa locale, fu proprio un Nicco a donare il terreno sul quale sorse la chiesa. Quando nel 1923 padre Chenuil, superiore generale dei missionari scalabriniani, fece una visita in loco, ebbe un entretien proprio con i Nicco (Pierre, figlio del fu Jean, e Grat) a cui i cittadini dedicarono poi le vie della zona; in quel momento ces braves Valdôtains erano déjà avancés en âge . (2) Dal 2023 la cappella storica, riconosciuta come Unità di Interesse di Preservazione, è stata inserita dal Comune di Curitiba nel programma Rosto da Cidade , che prevede il restauro e la valorizzazione dell’edificio, ulteriore segno dell’importanza di questo lascito valdostano in Brasile. (3) Un dettaglio curioso: all’interno della parrocchia di Mossunguê si conserva una statua policroma di San Grato che riprende la stessa iconografia di quella collocata sulla facciata della cattedrale di Aosta. Le due immagini risultano quasi identiche, seppure speculari, a conferma di un legame che attraversa i secoli e l’oceano. L'immagine di copertina, creata con l'ausilio dell'intelligenza artificiale, ha valore puramente evocativo, pur rispecchiando in maniera quasi fedele le statue originali nelle fattezze, nelle posizioni, nei materiali, nei colori e nelle forme. (1) https://arquidiocesedecuritiba.org.br/paroquia-sao-grato-no-mossungue-celebra-seu-padroeiro-neste-dia-15-09/ (2) Le Duché d’Aoste , 11 aprile 1923. (3) https://www.curitiba.pr.gov.br/noticias/iluminacao-cenica-realca-historia-da-capela-sao-grato-refugio-de-simplicidade-no-mossungue/76928

La fuga miracolosa degli ostaggi di Aosta Nel giugno del 1691 la Valle d’Aosta fu travolta dall’invasione delle truppe francesi guidate dal marchese de la Hoguette. Per alcune settimane seimila soldati dilagarono nella regione, lasciando dietro di sé saccheggi, devastazioni, incendi, ponti distrutti, luoghi sacri profanati e persino il tentativo di strappare i tesori alla cattedrale di Aosta. Ma, ingannati dalla presenza del giglio scolpito su alcuni arredi e dalla tradizione che voleva il Duomo restaurato da un antico re dei Franchi, Gontrano, si dissuasero dall’oltraggio, pur non rinunciando al resto. Subito giunse la loro richiesta: una contribution de guerre di 300.000 livres . Dopo trattative, la cifra scese a 200.000, ma rimaneva impossibile. Si consegnarono allora sacchi di grano, bestiame, vino, denaro, preziosi. Intanto i soldati occupavano case e conventi. Nonostante i sacrifici, la somma non fu raccolta. Per garanzia i francesi pretesero sei ostaggi: il canonico Jean-Georges De Tiller e Joseph Tissioret per il clero; il barone François-Gaspard d’Avise e François-Jérôme Brunel per la nobiltà; il consigliere Jean-Joseph Lyboz e l’avvocato Jean-François Ferrod per la borghesia. Condotti a Chambéry, furono rinchiusi nelle prigioni del castello. Là, trattati con durezza e ormai certi che il riscatto non sarebbe più stato pagato, riuscirono a guadagnarsi la fiducia di un giovane soldato francese, Nicolas Champlot de Montargis. Con promesse e forse qualche lacrima, ottennero il suo aiuto. Una notte, il soldato li fece calare dall’alto dell’edificio con una corda. Sperduti nell’oscurità, senza guide, vagarono con Champlot tra campi e villaggi, travestiti da carbonai, (1) implorando la protezione della Vierge e facendo voto. Fu un lungo viaggio di ventiquattro giorni: dalla prigionia di Chambéry circumnavigarono le falde del Monte Bianco, raggiunsero il Colle del Gran San Bernardo e infine rientrarono ad Aosta il 23 dicembre 1691. I fuggitivi, insieme al loro salvatore, furono accolti da un’esplosione di gioia popolare. In solenne processione si recarono alla cappella di Notre-Dame-de-Pitié, oltre il Pont-Suaz (Charvensod), per offrire un ex-voto raffigurante la loro liberazione. Quel quadro, rifatto nel 1837, si trova ancora oggi nella cappella. Nicolas Champlot ricevette un vitalizio e si stabilì in Valle d’Aosta, dove fu accolto come un concittadino. Morì nel 1744. Suo figlio divenne parroco a Sainte-Marie-Magdeleine di Gressan e si spense nel 1812: (2) segno che da quell’avventura nacque un legame destinato a durare ben oltre la fuga miracolosa. Fu un’avventura intensa. Sospesa tra la crudeltà della guerra e la forza della devozione, tra il coraggio degli uomini e il segno della protezione divina. Un'importante pagina di storia valdostana. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. ( 1) L’Indépendant , 22 aprile 1875. (2) J.-A. Duc, Histoire de l’Eglise d’Aoste , VII, pp. 426-437.

Il “Sindaco di legno” in Valle d’Aosta Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, la stampa valdostana si accese attorno a una figura singolare e beffarda: il syndic de bois , il “sindaco di legno”. L’espressione, nata come satira politica, metteva in luce le lacerazioni delle comunità locali, dove le elezioni comunali si trasformavano spesso in scontri tra famiglie, villaggi e soprattutto tra clericali e liberali. Già nel 1893 Le Valdôtain , giornale cattolico moderato, scherzava scrivendo che in un certo Comune sarebbe stato utile eleggere un “sindaco di legno”, più imparziale e meno incline alle “gelosie di partito”. Non una persona scelta dalla cosiddetta opinion publique . Quest’ultima era invece fatta da interessi privati: prendeva un uomo, lo vestiva a nuovo, lo lucidava, lo trasformava di tutto punto e lo conduceva ad Aosta pour lui montrer où se trouve la Sous-Préfecture . (1) Un sindaco impersonale, insomma, che non offendesse nessuno: “di paglia o di legno, basta che non lo si incendi subito”… Molti anni dopo, la polemica venne ripresa con toni ancora più accesi dal giornale anticlericale Le Mont-Blanc . Nel dicembre 1910 un gruppo che si firmava “del partito liberale” propose di affidare gli affari comunali a un sindaco fittizio, immobile come una statua, che non perdesse tempo, come sovente accade, a frequentare le osterie con il suo seguito. “Almeno” – scrivevano con sarcasmo – “un sindaco di legno farebbe risparmiare, salvo la spesa per lo scultore, ovviamente”. E, in un crescendo dissacrante, suggerivano perfino di collocarlo in chiesa, accanto al grande crocifisso, in un’incredibile “collaborazione” simbolica che – dicevano – avrebbe attratto ancora più bigots . (2) La provocazione non rimase senza risposta. Qualche giorno dopo, una lettera firmata da un gruppo di donne cattoliche (forse autentica, forse costruita dal giornale stesso) difese il crocifisso come emblema sacro della Redenzione, bollando la trovata del sindaco di legno come un’offesa alla dignità. (3) La disputa si accese ulteriormente quando un giovane consigliere comunale valdostano scrisse al giornale: i lettori – ironizzava – ne avevano ormai les boîtes pleines di sindaci di legno. Quanti ce n’erano già nella Valle? E di chi la colpa? Forse di quegli elettori pronti a vendersi per un bicchiere di vino? Il giovane rivendicava con orgoglio che, almeno nel suo Comune, il sindaco era stato scelto bene: lontano dal profumo dell’incenso e ancor più lontano dall’essere “piazzato accanto al crocifisso”. Perché – concludeva con una punta di moralismo – le Christ était pur, innocent, ennemi de l’ivrognerie . (4) E oggi? Oggi le cose sono cambiate e, al di là della satira politica e dissacrante appena ricordata, sappiamo che i nostri sindaci valdostani, pur tra le mille difficoltà della società contemporanea, operano per il bene delle loro comunità. Al massimo, i “sindaci di legno” potrebbero diventare curiosi soggetti d’artigianato da inventare e mostrare alla Fiera di Sant’Orso… ma, in fondo, meglio di no. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) Edizione del 24 febbraio 1893. (2) Edizione del 23 dicembre 1910. (3) Le Mont-Blanc , 6 gennaio 1911. (4) Edizione del 3 marzo 1911.

I draghi sui tetti di Aosta Le riparazioni fatte per la distribuzione dell’acqua nei diversi quartieri della città, eseguite alle soglie dell’inverno 1860, furono accolte con favore dai cittadini di Aosta. L’acqua sarebbe stata distribuita da fontane a getto collocate a distanze convenienti, e quando il freddo avrebbe cominciato a farsi sentire, chiudendo le chiuse – e con accorgimenti che evitassero alle acque di tracimare e ristagnare – si sarebbero finalmente liberate le strade da quell’ammasso d’acqua che troppo spesso le trasformava in lastre di ghiaccio. Tuttavia, restava ancora – assicurava un giornale dell’epoca (1) – un miglioramento da compiere: la soppressione, il più presto possibile, delle gargolle a testa di drago ( gargouilles à tête de dragon ) che riversavano a cascata tutta l’acqua dei tetti. Pericolose, potevano provocare incidenti: quelque chute ou au moins quelque glissade (qualche caduta o almeno qualche scivolata). Si sarebbe potuto rimediare a questo inconveniente, suggeriva ancora il cronista, facendo stabilire delle condotte dalle case, soprattutto quelle che costeggiavano le vie principali, convogliando l’acqua dalle grondaie dei tetti in tubi che, scendendo lungo i muri, sarebbero sboccati in piccoli condotti sotterranei, uniti poi alle fogne. Nous savons bien qu’une semblable réparation ne peut se faire en un seul coup; mais nous savons aussi que la dépense supportée par les propriétaires des maisons ne sera jamais supérieure à celle qu’ils paient aujourd’hui . (2) Un’ultima osservazione riguardava la piazza Carlo Alberto, l’attuale piazza Chanoux: qui, durante le grandi piene, il canale che correva lungo il lato meridionale della piazza si gonfiava fino a diventare une rivière infranchissable , un fiume inattraversabile. Il rischio era che la corrente travolgesse i ponticelli che permettevano di superarlo, lasciando i cittadini senza passaggi sicuri. La proposta era semplice: disporre lastre di pietra molto semplici ma solide, sulle quali passare senza pericolo tutte le volte che l’acqua traboccava. Oggi quasi tutto scorre nascosto sotto l’asfalto, ma basta osservare certe vie, aprire le cronache dell’epoca o guardare una vecchia cartolina per ritrovare quel gorgoglio che un tempo dava voce ad Aosta. Immagine di copertina: Piazza Chanoux e una ponteille (a destra in basso); cartolina d'epoca. (1) L’Indépendant , 4 dicembre 1860. (2) “Sappiamo bene che una simile riparazione non può compiersi in un solo colpo; ma sappiamo anche che la spesa sostenuta dai proprietari delle case non sarà mai superiore a quella che essi pagano oggi”.

Aosta, la Roma delle Alpi Passeggiare per Aosta è come sfogliare un manuale di archeologia senza sfogliare nulla: basta alzare lo sguardo e ci si imbatte in un arco onorario, una porta monumentale, le mura, il teatro, il criptoportico. Pietre romane che non raccontano solo storie lontane, ma che hanno dato alla città un soprannome che ancora oggi risuona familiare: la Roma delle Alpi . Ma quando nasce davvero questo appellativo? E perché? Frugando tra le pagine di giornali ottocenteschi, la più antica definizione che sono riuscito a scovare risale al 1850. (1) Ma attenzione: non si parlava ancora di Roma delle Alpi , bensì di Rome du Piémont . E il Piemonte, in quell’epoca, non era soltanto l’idea geografica che abbiamo oggi: era anche il titolo politico del cuore del Regno di Sardegna, lo Stato sabaudo che teneva insieme il Piemonte, la Savoia, la Liguria e, naturalmente, la Valle d’Aosta. L’Italia unita non esisteva ancora, e nemmeno il concetto di "Alpi" come marchio identitario europeo. Dire 'Roma del Piemonte' significava, in fondo, inscrivere l’antica Augusta Praetoria Salassorum nel quadro sabaudo, come capitale simbolica di un’eredità gloriosa. Qualcosa cambiò tra Ottocento e Novecento. Non è solo il tempo del giovane stato unitario italiano, ma è anche il tempo delle prime guide turistiche illustrate, dei viaggiatori che si spostano per cultura e piacere, non solo per necessità. È lì che comincia a circolare con più forza l’immagine di Aosta come Roma delle Alpi : un modo nuovo, più ampio, di situarla non in un contesto politico, ma geografico, quasi naturale. La prima traccia certa che ho trovato risale al 1901. (2) Forse ce ne sono di precedenti, ma da quel momento l’espressione prende piede, fino a diventare quasi un marchio. Poi arriva il fascismo, e il nuovo epiteto trova terreno fertilissimo. Il regime esaltava la romanità come mito fondante della nazione, dell’impero: monumenti restaurati, architettura e retorica imperiale, celebrazioni. Aosta, con la sua densità di vestigia, diventa il laboratorio perfetto... anche per combattere il suo spirito autonomista e la sua francofonia. La Roma delle Alpi non è più solo un modo di dire, ma un titolo che entra nei discorsi ufficiali, nei manifesti, nelle guide, nei discorsi celebrativi. Oggi quell’appellativo è diventato un titolo culturale a pieno diritto. Dopo essere stato strumentalizzato in epoca fascista come emblema di romanità imposta, ha ritrovato il senso che aveva avuto nell’Ottocento: non più bandiera politica, ma marchio turistico e identitario, capace — con la forza delle sue pietre — di richiamare viaggiatori e curiosi da ogni parte del mondo. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) La Ville d’Aoste a été nommée la Rome du Piémont, à cause de ses antiquités : L. Pléoz, Le Garde National soit Almanach du Duché d’Aoste pour l’an 1850 , p. 68. (2) L’Union Valdôtaine , 29 novembre 1901.

13/09/1945 – 13/09/2025 Chi mi legge e conosce sa quanto profonda sia la mia passione per la storia e per le tradizioni valdostane. Oggi ricordiamo l’ Union Valdôtaine , che compie ottant’anni dalla sua fondazione. Per farlo, ho scelto di lasciarmi ispirare da un giornale dell’epoca, L’Union Valdôtaine del 15 dicembre 1945. “La Valle d’Aosta, lungo i secoli, ha sempre custodito la nostalgia delle proprie radici. Un sentimento che riaffiorava con forza ogni volta che pressioni esterne tentavano di soffocare la sua identità. Già dall’Ottocento il nodo più sensibile era la lingua francese, difesa con tenacia da generazioni di valdostani contro le spinte uniformatrici dello Stato. A quella battaglia se ne affiancarono altre: la richiesta di decentralizzare i servizi, mantenere le istituzioni locali, proteggere tutto ciò che rappresentava la specificità culturale e civile della nostra Valle. Le promesse di Roma restarono spesso lettera morta, e la fiducia nelle parole del governo venne meno. Poi arrivò il fascismo. Anche allora furono promessi rispetto e considerazione, ma la realtà fu una persecuzione dura, umiliante, che cercò di spegnere la nostra voce. Eppure il giunco valdostano ( le roseau valdôtain ) si piegò, senza mai spezzarsi. Così, quando la libertà tornò a far capolino, un gruppo clandestino fedele alle tradizioni uscì dall’ombra e devint légion .” In questo clima, segnato da lotte e speranze, il 13 settembre 1945 nacque l’ Union Valdôtaine , riconosciuta poco dopo dalle Autorità Alleate. Non più un movimento clandestino, ma un’associazione con il suo posto al sole, chiamata a essere al tempo stesso muro di difesa e forza di propulsione verso il futuro. Il suo appello era chiaro: unirsi per difendere tradizioni, diritti, cultura; lavorare per elevare la vita morale e sociale della comunità valdostana. Non un ritorno nostalgico, ma un passo deciso verso una ricostruzione che non poteva prescindere dall’identità. Collocata in quel contesto, la fondazione dell’ Union Valdôtaine rappresentò uno dei passaggi significativi della storia politica valdostana del secondo dopoguerra: da associazione culturale e identitaria a movimento politico, realtà che accompagna la vita pubblica della Valle d’Aosta fino a oggi. ---------- 13/09/1945 – 13/09/2025 Ceux qui me lisent et me connaissent savent combien ma passion pour l’histoire et les traditions valdôtaines est profonde. Aujourd’hui, nous nous souvenons de l’Union Valdôtaine, fondée il y a quatre-vingts ans. Pour le faire, j’ai choisi de m’inspirer d’un journal de l’époque, L’Union Valdôtaine du 15 décembre 1945. « La Vallée d’Aoste, au fil des siècles, a toujours gardé la nostalgie de ses racines. Un sentiment qui refaisait surface avec force chaque fois que des pressions extérieures tentaient d’étouffer son identité. Dès le XIXe siècle, la question la plus sensible fut la langue française, défendue avec ténacité par des générations de Valdôtains contre les poussées uniformisatrices de l’État. À ce combat vinrent s’ajouter d’autres : la demande de décentraliser les services, de maintenir les institutions locales, de protéger tout ce qui représentait la spécificité culturelle et civile de notre Vallée. Les promesses de Rome restèrent souvent lettre morte, et la confiance dans la parole du gouvernement s’en trouva ébranlée. Puis vint le fascisme. Là encore, on promit respect et considération, mais la réalité fut une persécution dure, humiliante, qui tenta d’éteindre notre voix. Pourtant, le roseau valdôtain plia, sans jamais se rompre. Ainsi, quand la liberté fit de nouveau son apparition, un groupe clandestin fidèle aux traditions sortit de l’ombre et devint légion. » Dans ce climat, marqué par les luttes et les espérances, naquit le 13 septembre 1945 l’Union Valdôtaine, reconnue peu après par les Autorités Alliées. Elle n’était plus un mouvement clandestin, mais une association ayant trouvé sa place au soleil, appelée à être à la fois un mur de défense et une force de propulsion vers l’avenir. Son appel était clair : s’unir pour défendre traditions, droits, culture ; travailler à l’élévation morale et sociale de la communauté valdôtaine. Non pas un retour nostalgique, mais un pas décidé vers une reconstruction qui ne pouvait pas se faire sans identité. Placée dans ce contexte, la fondation de l’Union Valdôtaine représente l’un des moments significatifs de l’histoire politique valdôtaine de l’après-guerre : d’association culturelle et identitaire, elle devint mouvement politique, une réalité qui accompagne la vie publique de la Vallée d’Aoste jusqu’à aujourd’hui.

Tutte le Aosta del mondo Provate a immaginare che il nome Aosta non appartenga solo alla nostra città alpina, con le sue mura romane e l’Arco di Augusto. Immaginate che quel nome abbia viaggiato lontano, si sia trasformato in Aoste, Aouste, Valdosta, lasciando tracce in borghi francesi, in sogni coloniali e persino sotto il sole della Georgia americana. È la storia sorprendente di un filo che parte da Roma e ancora oggi lega luoghi distanti. Tutto nasce dal latino Augusta , titolo imperiale che i Romani diedero a città nuove o rifondate in onore dell’imperatore. Così, oltre alla nostra Augusta Praetoria Salassorum , ritroviamo Aoste , nell’Isère, piccolo borgo francese che conserva tracce gallo-romane. Più a nord, nelle Ardenne, sorge Aouste , villaggio di campi e boschi con una chiesa medievale fortificata dedicata a Saint-Rémi. E ancora, nella Drôme, Aouste-sur-Sye , un alveare prealpino di case chiare dai tetti rosati dalle quali emerge un bel campanile. Ma la storia non si ferma qui. Nel 1940, durante la breve stagione coloniale italiana, fu annunciata persino un’“ Aosta d’Etiopia ”: un centro agricolo da fondare nell’Harrarino, dedicato al Duca d’Aosta viceré e alla nostra città. Ne parlarono i giornali, si ipotizzò persino un gonfalone da inviare dall’Italia, ma il progetto rimase lettera morta allo scoppio della guerra. E infine, come in un gioco di rimandi inattesi, attraversiamo l’Atlantico. Negli Stati Uniti, in Georgia, esiste Valdosta , città di oltre 50.000 abitanti. Il suo nome deriva da “Valle d’Aosta”, appellativo che un governatore diede alla sua piantagione nell’Ottocento. Lì, tra magnolie e clima subtropicale, sopravvive l’eco lontanissima della nostra Valle alpina. Ecco allora la piccola famiglia delle Aosta del mondo. Ognuna con il suo carattere, le sue storie e i suoi paesaggi. Sarebbe bello farle incontrare tutte, magari in un gemellaggio o una grande festa, sotto lo stesso nome antico che ancora oggi ci accomuna.

La leggenda che segue è ispirata a La Légende des dentelles de Cogne , scritta da Joséphine Duc-Teppex e pubblicata sul giornale Le Mont-Blanc il 17 agosto 1923. Il testo è stato da me reinterpretato e riscritto in italiano, mantenendone lo spirito popolare e narrativo. La leggenda delle dentelles di Cogne Un tempo, a Cogne, i lunghi inverni erano duri e monotoni. Le case, povere e buie, resistevano come potevano al freddo e alla neve. Nelle stalle, le famiglie si radunavano con vicini e amici, attorno al fuoco alimentato dalle pigne, per scaldarsi, parlare e raccontare storie. Fra tutti, il più atteso era Jérôme, che scendeva da Gimillan per raggiungere la casa del cugino Mathurin: passo sicuro, appuyé sur un gros bâton noueux, les souliers ferrés, le bonnet de laine enfoncé bien bas sur le front . Era il miglior narratore di montagna: conosceva non solo le storie dei vecchi, ma anche quelle raccontate nei libri, l’origine delle famiglie, persino i nomi delle pietre. Il était enfin la tradition du pays et sa science. Il en était de plus la sagess e ! Una sera d’inverno, le donne della stalla gli chiesero un racconto. J érôme sorrise e cominciò: «Questa storia non viene dai libri, ma dalla mia stessa nonna, Césarine. Un tempo ella era giovane e bella, ma povera e sola con suo padre, oppressa dai debiti. Un giorno, triste davanti alla porta, sospirò: “ Ah, se ci fossero ancora le fate buone, che aiutano chi soffre!” Ed ecco che apparve la mère Cunégonde, una fata alta e magra, con il capo incoronato di rododendri e un abete di cinque metri come bastone. “Ho visto la tua pena dalla cima del Gran Paradiso” le disse, “e vengo a consolarti” . Battendo tre volte a terra con la punta del suo bastone, fece comparire dieci minuscoli operai, spiritelli vivaci, non più alti di un fiammifero. Poi soffiò sulle mani di Césarine: i diavoletti entrarono nelle sue dita, trasformandole in strumenti di meraviglia. Infine, dalla punta del suo abete lasciò cadere un fiocco di ghiaccio purissimo del Gran Paradiso, così fine e trasparente da sembrare intagliato come i pizzi di Venezia. “Ecco il tuo dono” disse, “sta a te saperne trarre fortuna” . Poi si avviò verso il ghiacciaio della montagna. Da quel giorno, le mani di Césarine filavano e lavoravano pizzi così belli e delicati che presto si diffusero ovunque. Con il lavoro pagò i debiti, visse serena e non conobbe più la noia: i diavoletti, nascosti nelle sue dita, le tenevano compagnia mentre lei creava merletti e cantava». La bella Giovannina, una canavesana della Val Soana trasferita a Cogne, che spesso si stancava davanti al suo arcolaio, comprese la lezione: si accorse anche lei di avere autant de diablotins habiles et lestes que de doigts . Da quel momento la sua casa si riempì di fiori e di merletti, e tutte le donne di Cogne adornarono i loro costumi con quei pizzi che ancora oggi caratterizzano l’abito tradizionale del paese. Così, secondo una leggenda, nacque la tradizione dei pizzi a Cogne... L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa.